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Tutte le differenze fra Trump e Clinton in politica estera

I titoli si assomigliano ma non sono identici. Perché tutt’altro che identici sono coloro cui sono dedicati. Nella storia politica americana ci sono molte Hillary Clinton (tutte, tranne lei, di sesso maschile) e pochissimi Donald Trump.

Che poi i due vengano contrapposti nella finalissima della maratona politica per la Casa Bianca non era mai successo. Né si era vista una campagna elettorale come quella che si concluderà fra pochi giorni, in cui tutte le sorprese si sono accumulate in un campo, quello repubblicano e quasi tutte le previsioni sono state confermate in quello democratico. Comprese le svolte di opinione pubblica, che appaiono essersi rafforzate e inasprite proprio negli ultimissimi giorni, al punto di mettere in pericolo la saggezza convenzionale, che per tutto il resto di una maratona durata quasi un anno e mezzo aveva fornito i muri, o almeno le transenne, per mantenere le previsioni nel campo del “normale” e dunque prevedibile.

Oggi come oggi si può predire cosa farà Hillary Clinton alla Casa Bianca se vincerà, non si può ripetere questa formuletta sostituendo Hillary Clinton con Donald Trump, ma non si può neanche escludere che, a quest’ultimo, riesca di spezzare i pronostici e di vincere allo sprint, negli ultimi metri o secondi. Tutto quello che si può fare è mettere in un titolo è “Che cosa farebbe Donald Trump se vincesse”.

Ciò detto, ne sappiamo ben poco. L’unico campo in cui, mettendo in pensione le regole e le saggezze convenzionali, qualcosa si può prevedere e dunque, con le debite precauzioni, affermare è che una Casa Bianca Trump, terrebbe una rotta molto diversa da quella della dinastia Clinton nei rapporti con la Russia. Non occorre prendere alla lettera tutte le dichiarazioni, i pronunciamenti e gli slogan del candidato repubblicano per disegnarvi sopra una linea di politica estera. Tuttavia in quasi tutte le sue incursioni in questo campo, Trump ha proposto o almeno ipotizzato, iniziative e reazioni che sono all’opposto di quelle perorate dal candidato democratico.

La Clinton, pur guardandosi dall’usare queste due parole, intende muovere lo sterzo in direzione di una riedizione della Guerra Fredda, in misura certo minore e senza l’intenzione di farla culminare in uno scontro militare. Ma lei appoggia l’Ucraina contro la Russia, le minoranze in Crimea, una soluzione in Siria completamente opposta a quella desiderata dal Cremlino, il mantenimento o l’inasprimento delle sanzioni economiche contro Mosca, una fotografia della Repubblica Federativa Russa che assomigli a quella della defunta Unione Sovietica.

La linea Hillary è più netta e prevedibile se si ricordano le sue iniziative nel quadriennio in cui la Clinton è stata segretario di Stato di Barack Obama, succeduta poi durante il secondo mandato da John Kerry, diplomaticamente ma coerentemente su un linea diversa.

Quello che si prevede per Mosca vale anche per la Siria, l’Iraq, l’Arabia Saudita, forse l’Egitto e certamente l’Iran. Si delinea una continuità che conduce semmai alla linea di George W. Bush più che a quella di Obama, che ha soprattutto cercato di mediare fra due linee, due visioni e forse soprattutto due istinti.

Ne dovrebbero, sempre nell’ipotesi di una vittoria di Trump, subire in qualche modo le conseguenze gli alleati europei. Non sul piano dei rapporti bilaterali, che anzi Trump sembra prediligere, ma nell’ambito della Nato.

Se le sue affermazioni sono state meditate e tenute a una coerenza (purtroppo non è facile dirlo date le abitudini e lo stile elettorale del candidato repubblicano), l’Alleanza Atlantica potrebbe venire condotta da Washington verso una “cura dimagrante”. Finanziaria, perché Trump ha denunciato più volte l’insufficienza dei contributi alla cassa comune di difesa, perché anche nella sfera economica si avverte nelle parole del candidato repubblicano una vaga nostalgia dell’autarchia come difesa del bilancio nazionale Usa e dei posti di lavoro, ingigantito il primo e erosi i secondi in conseguenza della globalizzazione e infine di nuovo strategica in quanto presuppone un capovolgimento di un trend planetario di oltre un quarto di secolo, di una difesa (se non nostalgia) del mondo di ieri.

Almeno in questo Donald Trump è riconoscibile come un conservatore e quindi come erede di una tradizione repubblicana, per il resto spesso irriconoscibile nello stile e nel contenuto dei suoi proclami. A cominciare dall’intenzione appassionata di innalzare un muro come confine fra gli Stati Uniti e il Messico, rappresentante e tramite dell’ondata migratoria da tutta l’America Latina.

Meno nota, o meno chiara, l’intenzione di questo possibile (anche se non probabile) presidente Usa nei confronti del nostro problema migratorio euroafricano, molto più grave e complesso dell’affluenza (oltretutto molto rallentata) di americani del Sud nell’America del Nord. Questa è oggi forse l’unica risposta che possa darsi chi si pone la domanda di cosa farebbe Donald Trump se martedì prossimo sarà eletto presidente degli Stati Uniti.

(Pubblicato su Italia Oggi, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)

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