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Ecco l’eredità economica che lascia Barack Obama

Obama

Sbaglia di grosso chi pensa che le famiglie americane, in questi giorni che precedono le elezioni presidenziali, discutano dei candidati alla Presidenza, dividendosi tra i detrattori dell’uno o dell’altra. C’è un’altra scadenza ben più importante, prima: entro il 15 dicembre bisogna scegliere il piano di assistenza sanitaria, resa obbligatoria con l’Obamacare. E quest’anno la scelta è particolarmente impegnativa, visto che i premi da pagare aumentano in media del 25%, secondo quanto riportato dall’apposito sito del governo federale.

È ben vero, si precisa, che crescono anche le detrazioni fiscali, ma il costo comunque sale e bisogna fare bene i conti. Come se non bastasse, ci sono le aree rurali e montane in cui c’è una sola compagnia assicurativa ad offrire la copertura sanitaria, che in Alaska costa già un occhio della testa. Negli anni scorsi, gli aumenti erano stati più contenuti, fra il 5% ed il 6%, ma adesso i nodi sono venuti al pettine: molte compagnie avevano fatto prezzi troppo bassi pur di aumentare la clientela, ed ora accusano perdite insostenibili. Alcune hanno ridotto il numero delle aree servite. Come se non bastasse, ci sono i rincari dovuti alla “spinta gentile”, la politica pubblica che indirizza le scelte dei cittadini con incentivi e disincentivi disseminati dovunque nella legislazione: poiché le compensazioni fiscali per le quote versate dai datori di lavoro crescono progressivamente in funzione di polizze con più alte garanzie di cura, le aziende sono indotte a preferire queste ultime: pur spendendo di più, hanno crediti fiscali ancora maggiori.

Ma, così facendo, accrescono anche la quota a carico del lavoratore, che non è pienamente compensata sul piano fiscale. Tanto pesa ormai sui bilanci familiari americani la assicurazione sanitaria, che il suo rinnovo a novembre fa scattare in modo anomalo i conti dell’ultimo trimestre dell’anno: le famiglie spendono di più, ma per lo stesso servizio. Le statistiche sono cieche, e fanno risultare aumenti di spesa che danno il senso di chissà quale spensieratezza.  Mentre Donald Trump ha promesso di abolire l’obbligo assicurativo, Hillary Clinton viene identificata dall’elettorato come la storica fautrice del sistema: nessuno lo ammetterà mai, ma questa coincidenza, tra rinnovo delle polizze per l’Obamacare e le elezioni, pesa sulle elezioni come un macigno.

Noi europei, che siamo così distanti, continuiamo ad osservare una campagna elettorale assolutamente insolita, combattuta come mai prima d’ora a suon di accuse sulla moralità e sulla scorrettezza dell’avversario, basata sulla delegittimazione dell’avversario. Vale comunque la pena fare un bilancio degli otto anni dell’Amministrazione Obama, per descrivere quale America si troverà a governare chi vincerà. Un confronto, in parallelo, con gli otto anni ancora precedenti, quelli di George Bush jr. risulta utile.

Cominciamo con la crescita economica. Non è affatto ingeneroso confrontare i dati relativi al periodo 2001-2008, con quelli “post-crisi” che vanno dal 2009-2016: con la Presidenza Bush il pil americano crebbe del 16,9%, mentre con Obama è aumentato dell’11,9%. Togliendo però di mezzo il 2009, l’anno in cui si verificò una caduta del 2,8%, la media annua di crescita risulta sorprendentemente identica: +2,1%, sia con Bush che con Obama. Al confronto, anche la performance dell’economia tedesca sembra poca cosa: appena +10,8% nel periodo 2001-2008, la metà di quella americana; +8,2% nel periodo 2009-2016. La media annua, escludendo ancora una volta nel secondo periodo il 2009, è rispettivamente di +1,3% nel primo periodo e del +2% nel secondo.

Le vere differenze tra i due modelli di crescita, Usa e Germania, emergono dai dati del debito pubblico e del saldo delle partite correnti. Sotto la Presidenza Bush, il debito federale americano è passato dal 53% al 72,8% del pil. Con Obama, vista la gravità della crisi, quest’anno è arrivato  al 108,2%. Si è pressoché raddoppiato in rapporto al prodotto, accumulando 55,2 punti, ma si è addirittura quadruplicato in termini nominali, passando dai 5.632 miliardi di dollari del 2001 ai 20.093 miliardi di quest’anno. Il debito tedesco è cresciuto assai meno: era pari al 57,6% del pil nel 2001, crebbe al 64,9% nel 2008, toccò il picco nel 2012 con il 79,5%, per arrivare quest’anno al 68,2%. In totale, ha accumulato 10,6 punti.

I saldi correnti esteri degli Usa hanno accumulato un passivo del 38,8% del pil con Bush e del 20% con Obama. La Germania, invece, ha pressoché raddoppiato l’attivo, passato dal 30% del periodo 2001-2008 al 55% del periodo 2009-2016. Il vero problema americano rimane ancora lo squilibrio delle partite correnti con l’estero. Dal record negativo del 2006, con il -5,8%, la forbice si era andata chiudendo fino al -2,2% del 2013. Da allora si è registrato un nuovo peggioramento, determinato dall’apprezzamento del dollaro rispetto alle altre valute. L’indice che misura il cambio del dollaro, pesato sul commercio nelle principali valute, è cresciuto da allora di 15-20 punti, passando da 75 a 90-95. La base, pari a 100, si riferisce al valore che aveva il dollaro nel 1973: così, tutti i valori inferiori a 100 denotano un indebolimento valutario rispetto alla parità di allora. Tanto più l’indice tende a calare, tanto più è favorito l’export americano; tanto più sale, tanto più l’import tende a crescere.

Le politiche monetarie delle Banche centrali sono state decisive. Mentre fra il giugno 2012 e l’aprile 2014 il cambio euro/dollaro era salito da 1,22 ad 1,38 per effetto dell’allentamento monetario adottato dalla Fed, il solo preannuncio del Qe da parte della Bce ne ha ribaltato l’andamento, facendolo scendere ad un intervallo compreso tra 1,05 ed 1,15. La competizione globale si gioca sempre sul piano valutario, così come l’arricchimento di molti Paesi, come Germania, Cina, Giappone e Corea del Sud, deriva dalla loro capacità di avere un saldo estero positivo.

Gli Usa hanno un sistema capitalistico di tipo imperiale, in cui il controllo politico e militare globale è funzionale ad una economia economicamente deficitaria. I secondi accumulano ricchezza vendendo all’estero, soprattutto negli Usa, che rappresentano il principale mercato di sbocco. Se l’America smettesse di comprare a questo ritmo, o riuscisse a svalutare definitivamente il dollaro rispetto all’euro, allo yen, ed allo yuan, questi Paesi esportatori si affloscerebbero come palloncini bucati. Non è casuale quindi che la strategia di Donald Trump sia centrata sulla revisione degli accordi commerciali internazionali, che ritiene favorevoli per le multinazionali e non per il popolo americano, e sulla denuncia della manipolazione valutaria cinese. Analogamente, pur con le recenti riserve formulate sul TPP, Hillary Clinton punta alla liberalizzazione dei servizi per riportare in pareggio i conti con l’estero: lega indissolubilmente agli Usa l’Asia e l’Europa, ed isola Cina e Russia. Sono due strategie diverse, che perseguono il medesimo obiettivo.

Anche la Gran Bretagna del 1914 aveva un saldo commerciale negativo. Anche allora, i tessuti prodotti in India costavano meno di quelli realizzati all’interno. Recuperava l’attivo con la gestione delle partite invisibili, con i proventi degli investimenti all’estero, le rendite e la finanza. Tutto si reggeva sull’esistenza dell’area della sterlina. Oggi anche il dollaro se la deve vedere con le altre valute, a cominciare con l’euro. Gli Usa non hanno più da tempo il monopolio sulla principale moneta di riserva e di scambio internazionale. Ma soprattutto, da quando la Bce ha deciso di dare corso al Qe, hanno perso il monopolio della svalutazione attraverso la creazione di moneta scritturale.

Era stato chiaro, sin dal 1985, che la politica monetaria da sola non sarebbe riuscita a riportare in ordine le relazioni economiche degli Usa con il resto del mondo: pur con tutta la brutalità usata dalla Fed di Paul Volker con la leva dei tassi, e nonostante un Presidente liberista come Ronald Reagan, ci si dovette sedere al tavolo delle trattative, per giungere agli Accordi del Plaza. Occorreva riportare all’equilibrio i conti americani caratterizzati, allora come ora, dal duplice squilibrio dei conti esteri e del debito, utilizzando le politiche economiche e non solo il cambio. Anche oggi, la politica monetaria dimostra di avere esaurito le sue risorse: un aumento dei tassi da parte della Fed farebbe affluire nuovi capitali, e porterebbe ad una ulteriore rivalutazione del dollaro. La crescita americana ne sarebbe fortemente penalizzata, mentre coloro che hanno contratto debiti in questa valuta rischierebbero il default, come accadde ai Paesi latinoamericani negli anni 80.

La forza dell’America risiede nel suo enorme mercato interno, che non può più crescere ancora a debito. Neppure i crediti, come si è visto, possono crescere all’infinito. Su questo riequilibrio globale si giocherà il destino della prossima Presidenza, e di gran parte del mondo.



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