Rudy Giuliani o John Bolton? Chi sarà il segretario di Stato, l’uomo che guiderà la politica estera di Donald Trump? Entrambi sono conservatori vecchio stile, formatisi nell’era reaganiana. Giuliani dalle colonne del Wall Street Journal ha già lanciato messaggi chiari sul Medio Oriente, sulla Cina e sulla Russia. Bolton, che nell’amministrazione di George W. Bush si è avvicinato ai neocon, è un esperto di commercio internazionale e gran nemico dell’Onu, dove è stato ambasciatore rude e poco diplomatico. Putin, secondo Valery Garbuzov, che dirige l’istituto per il Nord America all’Accademia delle scienze di Mosca, preferisce Giuliani: anche se l’ex magistrato e sindaco di New York si è mostrato meno comprensivo di Trump nei confronti della Russia, è un uomo solido e pragmatico. All’Italia andrebbe senz’altro meglio questo nipote di immigrati, amico e collaboratore di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: insieme stroncarono Pizza Connection e diedero un colpo durissimo a Cosa Nostra.
Comunque vada, Giuliani o Bolton, vecchio o neo conservatore, nessuno dei due può essere considerato un anti-sistema, un nemico dell’establishment, tanto meno l’espressione di una classe operaia dimenticata in marcia verso destra.
La formazione del gabinetto, la scelta degli uomini che eserciteranno il potere, è la prova della verità per capire cosa sarà l’amministrazione Trump. Una grande incognita, anche perché lo stesso neo presidente è in fin dei conti un enorme punto interrogativo. Mark Singer, in un suo ampio ritratto per il New Yorker, ripubblicato recentemente e intitolato “Trump & Me”, dopo averlo incontraro più volte e aver scavato per mesi attorno alla sua vita, scrive: “Il suo vero talento è essere Trump”, ma che cosa vuol dire? Alla fine Singer non è riuscito a capire fino in fondo “la persona sotto la maschera”.
Dunque, a questo punto non resta che aspettare. Una sola cosa appare certa: la narrazione che ci è stata fatta della “rivoluzione trumpista”, è ideologica e quanto meno parziale. Altro che reazione contro l’establishment. E’ andato al potere un establishment sconfiggendone un altro, una colazione di poteri forti ha battuto l’altra coalizione che aveva governato per otto anni, ma che aveva esercitato a lungo la sua egemonia economica e culturale. E’ prevalsa, si potrebbe dire, la old economy che si è presa una rivincita sulla new economy. Non sappiamo dove finirà questo colpo di coda, né se sarà un bene per l’America e il resto del mondo, ma così stanno le cose.
La conferma si trova leggendo il programma di Trump. Sì, perché, sia pur generico e propagandistico, un programma c’è, peccato che gli sia stata data poca attenzione soffermandosi più sulla fuffa o sui fuochi d’artificio di un abilissimo uomo da reality show. A sostenere The Donald ci sono i petrolieri, quelli del “Drill, John, drill”, quelli che spaccano le rocce e scavano sotto i mari. E’ vero che le sette sorelle stanno investendo molto sulle rinnovabili, ma di qui al prossimo decennio (almeno) la grande partita di potere, economica e geopolitica, si gioca sul petrolio e sul gas. Rimettere in discussione gli accordi sul clima apre nuove prospettive ai petrolieri a stelle e strisce.
Accanto a loro marciano i colossi farmaceutici che non debbono più temere una riduzione dei prezzi per mano amministrativa. Sono contente le banche medio-piccole perché non dovranno affannarsi ad aumentare il capitale se verrà ridimensionata la legge Dodd-Frank che ha riformato il sistema finanziario. Gioiscono i siderurgici schiacciati dalla concorrenza cinese. E con Trump sta anche il complesso militar-industriale che si è sentito soffocato se non emarginato dalla dottrina del soft power e dal modo in cui l’ha interpretata Barack Obama allo scopo di meritarsi ex post il Nobel per la pace.
Tutto questo mondo vuole protezione contro la concorrenza straniera con dazi, tasse e tariffe, ma soprattutto vuole un governo amico, che tenga conto degli interessi di fondo. Trump lo ha promesso, vedremo se e come manterrà gli impegni.
I grandi perdenti, invece, sono i signori della Silicon Valley e i colossi dei media, non solo e non tanto perché avevano puntato su Hillary Clinton e l’avevano sostenuta, ma perché sono gli alfieri della globalizzazione insieme alla grande finanza, hanno portato la tecnologia, i dollari, ma soprattutto la cultura americana in tutto il mondo, conquistando una posizione di assoluto predominio. E’ stato il vero potere di zio Sam negli ultimi decenni. Non è un caso che i cinesi oggi vogliano portare qui la loro sfida concorrenziale: con Alibaba e soprattutto con Wanda sono andati molto avanti, in campo finanziario invece mangiano ancora la polvere.
E’ difficile pensare che Trump danneggi interessi americani così forti solo perché gli sta antipatico Zuckerberg o che voglia far rimpatriare il montaggio degli iPhone. Ma attenzione, la vera sfida in questo campo riguarderà l’anti trust. Per rispondere al grido di dolore che si leva da tante parti del suo elettorato, l’amministrazione Trump potrebbe dare il via libera allo spacchettamento di Google: un presidente populista (all’americana vecchia maniera) come Teddy Roosevelt lo fece con la Standard Oil di Rockefeller, lo ha fatto Ronald Reagan nel 1984 con la AT&T, potrebbe accadere di nuovo con gli oligopoli del web. Anche in questo caso, non possiamo accontentarci delle parole, della narrazione come si dice oggi, quel che conta è sempre la prova dei fatti. Ma per favore smettiamola con i luoghi comuni sull’anti-politica: segui i soldi, troverai la politica; e che politica.