Fidel Castro è morto. Non è la prima volta. Questa è però l’ultima. Com’è accaduto a più di un grande personaggio storico -da Carlo Magno a Napoleone-, le cadute mortali del leader cubano e latinoamericano scandiscono la sua straordinaria biografia. Dal rovinoso assalto alla caserma Moncada, il suo primo aperto atto di guerra alla dittatura di Batista dal quale uscì vivo solo per l’aiuto occulto di un ufficiale batistiano segretamente affiliato al partito comunista, all’avventura del Granma e al fallimento del suo sbarco, alle strenue e sanguinose lotte politiche interne, agli attentati più micidiali e nondimeno talvolta bizzarri, alla diverticolite purulenta che dopo molte sofferenze l’ha infine ucciso.
La sua storia personale travalica i limitati confini di Cuba e quelli ben più vasti del continente americano per marcare un’intera epoca di avvenimenti mondiali. E’ da tempo assai nota e ora viene universalmente riassunta e ricordata. Ad aggiungere qualcosa di inedito sul personaggio può essere soltanto la narrativa di finzione, che a partire dai fatti elabora una lettura capace di superarli fino a immaginare i sentimenti profondi di un uomo che per novant’anni ha sfidato la vita, usando il potere politico per costruire il proprio mito. Fidel ha praticato l’amore, per le donne (a cominciare dalla madre, adoratissima), per i pochi amici, per l’avventura; ma ha creduto essenzialmente nel potere, in quanto sentimento capace più di qualsiasi altro di governare i destini degli uomini. Aveva letto Machiavelli non ancora ventenne, e la sua vicenda avrebbe destato l’attenzione del freddo politologo di San Casciano.
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OLTRE IL LIMITE
Fidel sentiva venir meno le forze, ma riteneva di conservare una lucidità soltanto leggermente appannata. Percepiva il proprio corpo come un mosaico sul punto di allentare la presa d’ un pezzo sull’ altro. Le braccia gli si afflosciavano impercettibilmente contro il torace e questo spingeva il bacino sulle gambe all’ improvviso molli come sigari ridotti in cenere: uno straniamento fulmineo e totale lo proiettava fuori di sè, permettendogli di vedersi nell’ interpretazione di se stesso, attore su una scena sconosciuta e senza alcun copione. Scivolava dal suo metro e novanta verso l’ imprevedibile. Gli occhi aperti gli trasmettevano ormai l’immagine fissa della folla nella piazza.
I cinquantamila riuniti ad ascoltarlo pensarono a una delle sue pause teatrali, non meno eloquenti dei discorsi torrentizi di cui non perdeva mai il filo. Lui era concentrato nello sforzo di non cedere alla vertigine che gli tagliava il respiro, mentre il violento brulichio scaturito dalle braccia lo avvolgeva in una sensazione di progressivo abbandono. Non era certo di aver potuto pronunciare la richiesta di aiuto, forse il suo era rimasto un inaudibile sussurro. Due giganti neri della guardia del corpo l’avevano sollevato e portato via, coprendolo con gli scudi trasparenti anti-proiettili. Era stato però il figlio Antonio, un giovane medico alto e robusto, ortopedico della nazionale di baseball, a cingergli per primo la vita e sostenerlo per evitare che rovinasse in terra.
Dal plotone schierato attorno al Comandante, s’ era fatto subito avanti a sostituirlo al microfono un giovane ministro in maglietta bianca, capelli cortissimi e barba rasata. Il suo aspetto poneva sotto gli occhi di tutti il balzo generazionale compiuto in pochi istanti dalla Rivoluzione che era stata dei barbudos. La foga con cui l’ oratore inneggiava a Cuba, al socialismo e ancor più insistentemente a Raul e Fidel Castro (nell’ ordine), non solo non bastava a dissimulare ma al contrario sottolineava l’ improvviso mutamento. I canuti generali in uniforme verde-olivo restavano indietro, impietriti. Il vicepresidente Raul non appariva. Nella tribunetta riservata al corpo diplomatico qualcuno ricordava l’ enigmatica risposta che il delfino ripeteva puntualmente a quanti
gli domandavano chi avrebbe sostituito il fratello maggiore:”Non bastano cento conigli per rimpiazzare un elefante!”.
Nessuno si era preoccupato di avvertire Dalia, la madre di cinque dei sei figli maschi del Comandante. Nella sua residenza sulle ben vigilate colline di Siboney, non lontano da quella toccata in dono a Gabriel Garcia Marquez, e come le altre ombreggiata da frondose magnolie e araucarie alte e diritte come promordiali obelischi, solo casualmente aveva appreso l’ accaduto dalla radio. Un’ informazione come sempre insoddisfacente: frammentaria, sommaria. Gli anni di convivenza matrimoniale e l’ amicizia mai interrotta con l’ ormai vecchio Comandante supremo le avevano insegnato l’ obbligo della discrezione. Non seppe trattenersi dal consultare i telefoni riservati ai quali aveva accesso. Resa ancor più ansiosa dalle chiamate che a sua volta cominciava a ricevere da amici intimi e altri familiari del vasto clan dei Castro Ruz.
Nel pronto soccorso dell’ ambulanza attrezzata per la terapia intensiva che l’ accompagnava ovunque, Fidel si era lasciato dominare per non più di due, tre minuti dalla maschera dell’ ossigeno, sebbene questa gli recasse innegabile sollievo. Nè prestava maggiore attenzione allo sfigmografo elettronico per il controllo della pressione, alla cannula della flebo, ai pacchi di garze con cui medici e assistenti gli assorbivano l’ancor esorbitante sudorazione scatenata dalla lipotimia. Era sempre con malcelato fastidio che lasciava la cura di sè ai medici, anche se ufficialmente li proclamava eroi della Rivoluzione e li inviava a centinaia a rappresentarla in mezzo mondo.
La sua capacità di autocontrollo era stata fin da ragazzo un forte motivo di orgoglio e costituiva un tratto non minore del suo temperamento di leader. Nondimeno, con l’ avanzare dell’ età, non erano mancati episodi in cui si era lasciato andare a rivelare le sue sofferenze fisiche, talvolta in circostanze poco opportune. Come in quell’ incontro con altri capi di stato al palazzo della Moneda, a Santiago del Cile (lo ricordava bene), quando trascurando le esigenze del protocollo aveva bloccato l’ intero cerimoniale per spiegare alla premurosa padrona di casa il malanno che lo costringeva a trascinare penosamente la gamba sinistra, dolente da molte settimane.
Lui se ne rendeva conto, ma non drammatizzava. A coloro tra gli intimi che preoccupati della sua immagine gliene avevano fatto cenno, dichiarava la diagnosi quasi si trattasse di un’ altra persona. Spiegava con distaccata esattezza che si trattava d’ una specie d’ incrinatura dell’ intenzione, quasi una distrazione della volontà, che però stava apprendendo a controllare grazie a una tutela più attenta della sua coscienza sulla sua natura, una meditazione che nel tempo diventava filosofica. Gli accadeva ancora di lasciarsi trascinare con maggior frequenza di quanto non desiderasse dai toni ultimativi, in qualche occasione si riconosceva irritabile e diffidente; ma non più esposto come in passato a quegli attacchi d’ impaziente malumore che gli antichi chiamavano atra-bilis, perchè con buona intuizione già li attribuivano a qualche irregolarità delle funzioni epatiche.
Per una persona che malgrado la scuola dei gesuiti aveva rinunciato presto all’ idea di Dio e poi, con la dissoluzione del sistema sovietico, perduto il riferimento storico dell’ ideologia abbracciata con la guerriglia rivoluzionaria, restava sempre una tendenza alla riflessione verso imperativi forti. Del resto non era mai stata la perseveranza, divenuta con frequenza volontarismo, a scarseggiare nell’ animo di Fidel e dei suoi compagni della Sierra Maestra. Nessuno di loro ne discuteva i rischi.
Fidel era assolutamente convinto che non lo riguardasse affatto quell’ avvertimento di Hannah Arendt, sul rischio che la forza dell’ ordine (e della parola d’ ordine) insita nell’ imperativo possa superare e poco a poco cancellare la natura stessa dell’ imperativo, quindi dell’ ordine. Per ultimo, che l’estremismo possa convertire il bene in male. Questo, pensava, può accadere solo se l’imperativo è negativo, se fin dalla sua postulazione ha contenuto il male. E non riteneva che fosse il suo caso.
L’ onore personale è la vita, passioni e affetti vanno contenuti, rifletteva Fidel, ultimamente tanto più spesso in quanto sapeva di aver talvolta interpretato con una certa discrezionalità l’altisonante precetto. L’ esistenza ha ed è una misura. Ma non è facile la lotta contro il desiderio, anche del desiderio di eterno, si diceva per consolarsi. Sorridendo della divina predeterminazione in cui credevano gli antichi stoici greci e romani, tanto quanto di quei miliardari che tra New York e San Francisco si facevano adesso ibernare in vasche d’ idrogeno liquido con la speranza di resuscitare qualche centinaio d’ anni più avanti.
Si, tutto ha una misura, ammetteva con convinzione sempre maggiore quanto più avanzava nell’età e malferma la salute. Anche la sua vita come singolo uomo, certo. E’ la questione del limite, che si pone anche nell’esercizio del potere. Lui ne aveva conquistato tanto quanto ne avevano richiesto le necessità di decidere…Sono queste a determinare la dinamica di governo per chi voglia cambiare l’ordine delle cose. Da tempo, tuttavia, il precario stato di salute indirizzava i suoi sforzi verso l’ esercizio costante di una volontà interiore, tutta rivolta su se stesso, al fine di rafforzarla continuamente.
L’ aveva impressionato l’esempio di Michel Foucault che nell’estrema sofferenza del male e fino all’agonia, aveva tracciato il cammino lungo il quale cercare i modi e la forza per non lasciare mano libera alla devastazione della malattia che annuncia la morte. Fidel riteneva d’ intravvedervi una profonda coincidenza con un pensiero che gli girava da tempo per la testa, secondo cui le personalità orgogliose di se stesse riescono a proteggere meglio la propria salute fisica anche quando questa subisce una ferita grave. I loro sistemi immunitari sarebbero più forti, in quanto l’orgoglio conterrebbe contemporaneamente un frutto e un seme capaci di agire in positivo sulla biochimica oltre che sulla psicologia umane. E Fidel, che aveva vissuto abbastanza per non avere dubbi sulla potenza del proprio narcisismo, si riconosceva pienamente in quella categoria.
Foucault era stato un incontro dell’ età matura. Un pensiero stimolante: che però non si era confrontato con gli imperativi della rivoluzione, con le contraddizioni tra le sue forze sociali, con la riorganizzazione dello stato, ostacoli e urgenze molteplici; e neppure con la mutevolezza dei tempi. Ne aveva discusso talvolta nelle riunioni notturne con Abel, Roberto, Lopecito, Gabriel, che spesso avevano l’aria di saperne più di lui e non trascuravano di farglielo notare, pur mostrando di ammirarlo e ossequiarlo.
Non aveva dimenticato che soprattutto quest’ ultimo ne aveva approfittato per ricordare l’omosessualità di Foucault e la perdurante difficoltà della cultura cubana a convivere con questa e altre diversità. Gabriel aveva citato espressamente il caso drammatico del suo collega Reynaldo Arenas e degli altri intellettuali perseguitati a causa delle inclinazioni sessuali, oltre che per la loro eterodossia politica. Ma come? Ma se ormai celebravano perfino la loro festa per la strada, senza che nessuno li disturbasse… La sua obiezione non aveva nascosto un tono stupito. Non si sentivano accettati? Beh, questa era un’altra faccenda; e poi lui -se lo diceva senza alcun imbarazzo-, non era mai riuscito ad appassionarsi al tema e senza proporselo era portato a chiudere in fretta i temi che non lo appassionavano.
E poi la propria salute: riusciva a comprendere che destasse qualche preoccupazione, ma detestava il chiacchiericcio che la circondava e tutte quelle allusioni alle sue piccole bizzarrie. Ciascuno ha le proprie sensibilità e chiunque può subire un incidente, la prova vera sta nella capacità di resistergli, di reagire. E finora lui era riuscito a tener testa alle malattie e a ogni cedimento. Agli intimi rivelava anzi con orgoglio di aver appreso ultimamente varie tecniche per recuperare energie, pur non avendo mai fatto lunghi sonni notturni in tutta la sua vita.
In effetti egli aveva sempre riposato dormendo ripetute siestas di 15, 20 minuti ciascuna non appena se ne presentavano la voglia e la possibilità. (Altrettanto aveva fatto nel corso di tutta la sua vita José Martí e questa coincidenza appariva a Fidel un benevolo segno del destino.) Per decenni, a letto non era quasi mai andato prima dell’ alba. Dopo aver trascorso gran parte della notte in dispute o conversazioni con collaboratori e amici; oppure tra i documenti riservati nel suo ufficio al primo piano del Palazzo della Rivoluzione, sempre lontano dai pasti di solito brevi e frugali, spesso interrotti da telefonate, visite, letture, talvolta dal sonno che raramente lo trovava vestito del pigiama.
Non si negava che ci sarebbe stato un dopo-Fidel, però gli costava credere che fosse cominciato. Tanto meno che dovesse aver luogo con salve di cannone, bandiere abbrunate, abilitando mausolei o spargendo ceneri ai quattro punti cardinali. Se la fede non si sovrapponesse in determinati momenti all’ immediata intelligenza, gli avevano insegnato i gesuiti, prevarrebbe la paralisi. Alla fede trascendente, il Comandante aveva sostituito la volontà, che era la fede in lui stesso.
Livio Zanotti
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