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Il referendum costituzionale non sarà l’Apocalisse

Maria Elena Boschi

No, comunque la si pensi e comunque vada a finire, il referendum costituzionale su cui saremo chiamati a votare il 4 dicembre non darà il via all’Apocalisse e neppure sarà primo motore di una subitanea rigenerazione nazionale. Chiunque sia dotato di medio buon senso è ben consapevole che, pur vincesse il “No”, di riforme il Paese avrebbe in ogni caso dannatamente bisogno e che, allo stesso tempo, in caso di vittoria del “Sì”, ci sarebbe un necessario periodo di assestamento e avvio del sistema e che i timori di pulsioni autoritarie hanno ben poco fondamento nella realtà. Insomma credo che le classi dirigenti Italiane, così come i cittadini, dovrebbero prepararsi al voto in modo molto meno drammatico da come prefigurato da certa politica e certa stampa. Calma e gesso, per capirci. Andrebbero fatte, in soldoni, valutazioni complessive e di sistema sui due punti fondamentali su cui si incentra la riforma (tralasciando l’abolizione del CNEL, organismo da decenni reso ininfluente dalla Storia): riforma del bicameralismo e nuova definizione dei rapporti fra Roma e le regioni. Sono certamente importanti gli eventuali risparmi che la riforma potrebbe portare: tuttavia, posto che sembra non molto semplice fare valutazioni concrete sui denari che effettivamente potrebbero restare nelle casseforti del Tesoro, ha un peso maggiore tentare di capire l’impatto concreto sulla modernizzazione e maggiore efficienza delle Istituzioni e dell’organizzazione dello Stato. Dal punto di vista di chi lavora nella macchina pubblica, ad esempio, il tema regionale appare, dal punto di vista del funzionamento del sistema, assai tangibile: basti pensare alla delicatissima materia delle politiche sociali per la quale, complice la riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, ci si trova davanti a una serie di veri e propri staterelli, ognuno con propri sistemi, col rischio più che concreto per i cittadini di ricevere livelli di servizi diversificati a seconda del luogo di nascita, con un fortissimo squilibrio di quote di servizi nelle diverse aree del Paese. Personalmente porrei meno enfasi, invece, sulla riforma del bicameralismo che, sulla carta, potrebbe creare una qualche confusione e che, soprattutto, non pare risolvere il problema endemico della qualità delle leggi e dello spostamento del boccino del potere normativo all’Esecutivo. Se questi sono i temi sui quali è doveroso e legittimo dibattere e dividersi, in vista del voto credo indispensabile tenere fermi alcuni punti. Primo: il Presidente del Consiglio suscita indubbiamente grandi simpatie o grandi antipatie e l’aver legato il risultato del referendum alla sua persona può essere stato un errore di valutazione. Sarebbe, tuttavia, imperdonabile ed irresponsabile esprimere un voto che sia meramente pro o contro il Governo senza una valutazione seria delle proposte contenute nella riforma. È evidente che il mondo della politica si esercita da mesi nell’immaginare gli scenari politici post-voto, ma non possono essere queste le motivazioni che devono guidare chi si rechi alle urne. Secondo: la Carta può esser cambiata. Anzi, deve esserlo ove opportuno. La legge fondamentale di un Paese è un documento vivo, che certamente si adatta in modo elastico ai mutamenti della società e che, tuttavia, necessita di aggiustamenti: gli stessi costituenti, val la pena ricordarlo, hanno posto l’unico insormontabile paletto di riforma nella forma repubblicana, che non può essere oggetto di revisione costituzionale (a meno, naturalmente, di sovvertimento dello Stato). Terzo, infine. Tutte le riforme costituzionali del mondo non potranno magicamente rendere più efficiente un Paese se non c’è una classe dirigente capace di gestirne i cambiamenti, sempre più imponenti e, talvolta, virulenti. Facciamo i conti con una inarrestabile personalizzazione in senso leaderistico (non conta il colore politico, naturalmente) che fa il pari con un crescente distacco o disinteresse dei cittadini per l’impegno civile: una società “molecolare”, come ha richiamato il Censis nel suo ultimo rapporto, in cui tutto è breve, veloce, dimenticabile. È una mera constatazione, beninteso: non siamo gli unici. È bene, tuttavia, tenere a mente che la scelta delle persone che prendano in carico responsabilità politiche è in capo ai cittadini, e solo a loro. Se dimentichiamo questa fondamentale responsabilità, cedendo al vizio della lamentela in cui siamo maestri indiscussi o, peggio, abdicando ai nostri doveri civili e repubblicani, il voto, referendario o meno, conta davvero poco.


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