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Noterelle sulla storia di Roma dedicate a Virginia Raggi

Una “res monstruosa”, qualcosa di mostruoso: così definisce la realtà capitolina l’insigne giurista Bartolo da Sassoferrato nel “De regimine civitatis”. Sembra un’istantanea della Roma di oggi, mentre risale alla metà del Trecento. Sul banco degli accusati, la condizione disastrosa della “sede del beato Pietro”. La “cattività avignonese” del papato (1305-1376) non era stata indolore: blocco dei massicci interventi edilizi promossi dai pontefici, diminuito afflusso di pellegrini, crollo della domanda di beni e servizi assicurata dalla Curia. Petrarca paragonava l’Urbe a un’anziana matrona, dal passato fascinoso ma spossata dalle lotte intestine. Boccaccio punterà il dito sulla sua decadenza artistica e culturale.

L’eminente medievista Jean-Claude Maire Vigueur ha scritto che a Roma “il comune nasce tardi, quando molte altre città italiane hanno da tempo conquistato la piena autonomia” (“Il comune romano”, in “Roma medievale”, a cura di André Vauchez, Laterza, 2015). Siamo nel 1143 e i romani sono in guerra contro Tivoli. Anche Innocenzo II voleva dare una lezione a una città che, durante i conflitti con l’impero, si era sempre schierata con gli antipapi. Il 7 luglio i tiburtini vengono sconfitti. Il pontefice li grazia, accontentandosi di un giuramento di fedeltà. La sua clemenza provoca però la ribellione dei romani, che irrompono nel Campidoglio dove danno danno vita a un’assemblea, il Senato. È l’atto fondativo del comune di Roma.

Nato in chiave antipontificia, il Senato tenta di sottoporre il clero alla sua giurisdizione, mettendo in discussione il principio dell’immunità giuridica e fiscale degli ecclesiastici. Fino alla metà del tredicesimo secolo, tutta la storia del comune romano è scandita da contrasti e da patti con il papato che hanno valore di compromesso provvisorio, ai quali Ferdinand Gregorovius ha dedicato pagine magistrali. È in questi anni che si forma un’élite aristocratica ristretta: non più di una dozzina di famiglie che si erano arricchite facendo incetta dei beni ecclesiastici. Sono i cosiddetti “barones Urbis”. Al comune dei “mercatores” e dei “milites” succede il comune dei Savelli, degli Orsini, dei Colonna, dei Cenci, dei Caetani, solo per citare i nomi più noti.

Si apre così quella turbolenta fase della storia romana che è stata chiamata “anarchia dei baroni”. Nonostante il loro strapotere, i baroni non hanno però mai tentato di modificare l’assetto istituzionale del comune. D’altronde, la struttura topografica dei rioni e delle contrade consentiva ai clan signorili di controllare sia l’elezione dei delegati ai Consigli cittadini sia il reclutamento delle milizie comunali. Nel 1328 sarà proprio un barone, Giacomo Colonna detto Sciarra, a guidarle in una clamorosa vittoria contro l’esercito guelfo capeggiato dal fratello del re di Napoli. Autore del famoso “oltraggio di Anagni” ai danni di Bonifacio VIII (1303) e esponente di spicco del partito filoimperiale, senatore autorevole e carismatico condottiero, la sua carriera politica è l’esempio più eclatante del doppiogiochismo di alcune figure della grande nobiltà romana. Pur non rinunciando a svolgere un ruolo cruciale nelle contese interne al suo ceto di appartenenza, Sciarra riesce a farsi apprezzare come “vertuosissimo barone” dal popolo, tanto da esserne nominato capitano nel 1327. L’istituto del capitanato risaliva al 1254, ed è coevo alla costituzione del consiglio dei “Tredici Buoniuomini” (rappresentanti dei tredici rioni della città) e alla riforma delle corporazioni delle arti e dei mestieri. Il loro artefice, il senatore Brancaleone degli Andalò, le aveva concepite per ampliare la partecipazione alla democrazia comunale dei ceti artigiani e mercantili.

“È Romani si levarono a romore e feciono popolo”, annota Giovanni Villani nella “Nuova Cronica” alludendo ai sommovimenti sociali che instaurano i regimi popolari anticipati dalle riforme di Brancaleone. Dal 1305 al tribunato di Cola di Rienzo (1347) saranno almeno cinque. Nel cinquantennio che precede la fine della sua autonomia, il comune romano raggiunge il punto più alto della sua parabola, arginando l’arbitrio baronale e, dopo la parentesi “renziana” (a chi legge non sfugga la prima vocale…), consolidando le sue istituzioni. L’uscita di scena di Cola non determina un arretramento del movimento popolare, bensì un profondo cambiamento della fisionomia istituzionale del comune. Nel 1358 una nuova magistratura, i Sette Riformatori (detti anche Rettori o Governatori), subentra al senatore e al capitano del Popolo nel governo della città. Viene inoltre creata la Felice Società dei Balestrieri e Pavesati: una milizia di tremila cittadini, metà armati di balestre e metà di uno scudo – il pavese – e di una spada. Balestrieri e pavesati non si sostituiscono all’esercito comunale, i cui reparti di cavalieri e di fanti continuano ad essere impiegati nella difesa delle mura aureliane dagli attacchi esterni. Sono piuttosto destinati a compiti di polizia, a espugnare i fortilizi dei baroni e a reprimere le loro scorrerie.

Anche se resterà in sella per circa un quarantennio, il nuovo regime si reggeva su un equilibrio precario. Le lettere dei mercanti fiorentini rivelano infatti l’esistenza di due partiti che si contendevano il potere senza esclusione di colpi: i “populares” e i “nobiles”. A dispetto dei loro nomi, erano diretti dalla medesima élite di mercanti agiati e di “bovattieri” (gli imprenditori agricoli più benestanti). Estate 1398: pur di impedire al capo dei “populares” Pietro Mattuzzi di riconquistare il potere con l’aiuto degli Orsini, i “nobiles” -spalleggiati dai Colonna- preferiscono consegnare la città nelle mani del pontefice con un atto formale di “resignatio pleni dominii”. Quando i capi dei “nobiles”, Pietro Sabba Giuliani e Pietro Cenci, tentano di reinsediare con la forza nelle loro funzioni i Banderesi (i comandanti della Felice Società), Bonifacio IX (1350?-1404) li fa giustiziare. Dopo due secoli e mezzo, il “libero comune” cedeva definitivamente il passo alla Roma papale.


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