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Perché Donald Trump non mi entusiasma su Nato e protezionismo

vignetta Trump

Non sono fra quelli che avevano previsto la vittoria di Hillary Clinton. Anzi, se avessi dovuto scommettere, avrei sicuramente impegnato una cifra su Donald Trump. Non perché conosca l’America profonda o i suoi sentimenti, ma semplicemente perché l’intuito mi diceva così. Sapevo bene quanto non fosse e non sia amata la Clinton. A ragione. E sapendo anche bene, fra l’altro, che i media, i sondaggisti, gli opinion makers non hanno più da tempo, da quella e da questa parte dell’Oceano, cognizione del reale, asserviti come sono per lo più ai loro luoghi comuni e alle loro certezze politically correct.

Nessuna meraviglia o stupore da parte mia, quindi, per questo esito elettorale. In più, considero una vittoria della democrazia quanto è successo, una prova della sua vitalità: la capacità di sovvertire ogni sondaggio, appunto, di immettere continuamente forze nuove nel seno delle sue classi dirigenti, di dare un senso non retorico alla solenne dichiarazione che il potere è nelle mani del popolo. Siamo in tempi democratici e della democrazia accettiamo tutti le regole. Ma ad esse aggiungiamo le regole liberali, quelle che ci impongono di rispettare i diritti individuali e i paletti imposti dal costituzionalismo. È questo surplus liberale che caratterizza, a ben vedere, le nostre democrazie, che non a caso distinguiamo da tutte le altre, pur esse basate sul consenso e che variamente chiamiamo autoritarie, plebiscitarie, socialiste, popolari …

In questo nucleo di valori, importante è anche non demonizzare l’avversario e accettarne la vittoria una volta che le urne (non a caso definite con giusta retorica il “trionfo della democrazia”) la abbiano decretata senza possibilità di appello. Obama, un cattivo presidente sotto molti aspetti, e a denti stretti la stessa Clinton, hanno rispettato questa regola basica; Trump, nel fervore della campagna elettorale, aveva minacciato di non farlo. È vero che una cosa sono le minacce e altra la realtà, che ugualmente diversa è la campagna politica rispetto al ruolo istituzionale che poi si va a ricoprire, ma almeno formalmente alle istituzioni andrebbero tributati onori e rispetti. Vero pure è, d’altro canto, che saranno i fatti a dimostrare quel che Donald Trump effettivamente sarà come quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti: il futuro è ovviamente imprevedibile, sa stupirci, e l'”astuzia della ragione”, come la chiamava il vecchio filosofo, ne sa sempre più di noi e sa servirsi, per i suoi fini, anche del materiale più grezzo che trova a disposizione.

In quanto uomini di cultura abbiamo poi il diritto di distinguere giudizi di fatto e giudizi di valore, come a ogni piè sospinto mi ricorda Dino Cofrancesco, e come di solito, aggiungo, gli intellettuali, “il razza dannata”, non fanno. In altra sfera, pratico-politica direi, i giudizi di valore sono però ammessi, anzi essenziali. Il problema è perciò allora di esprimerci sul confuso e rozzo programma elettorale che Trump ci ha presentato. Quello che lui vuole è veramente quello che vogliamo noi per noi stessi e, soprattutto, per quell’America che già sentivamo persa negli anni di Obama? Io me ne tiro fuori. La prospettiva di avere un’America socialisteggiante e protezionista in politica economica non mi aggrada affatto. Così come non mi aggrada, e anzi giudico pericoloso, mettere in discussione la Nato e le alleanze tradizionali, strizzare l’occhio ai dittatori, e prospettare un periodo di isolazionismo in politica estera. La forza della democrazia americana è anche nel saper rinnovare ogni tanto scenari e coordinate di fondo, esplorare nuove vie e nuove guide, come dicevamo. È bello e vitale incamminarsi verso sentieri inesplorati. Più bello ancora però sarebbe stato farlo con un guidatore più affidabile e, soprattutto, con una forma mentis americana e liberale più salda.



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