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Perché Silvio Berlusconi snobba le primarie di centrodestra

In un sistema parlamentare, il governo dei tecnici designa quella forma di governo di transizione che interviene -all’interno del ciclo democratico- in una fase di disordine economico e di crisi di legittimità delle élites politiche tradizionali. Pressappoco, questa è la definizione che possiamo leggere alla voce “Tecnocrazia” della Treccani. Se è così, quello italiano si presenta come un caso di scuola. Mario Monti non ce lo ha imposto Giorgio Napolitano. Ce lo hanno regalato Silvio Berlusconi e Umberto Bossi, Pier Luigi Bersani e Antonio Di Pietro. Se vincerà il No al referendum costituzionale, un nuovo governo tecnico non ce lo regalerà il presidente Mattarella, ma quel FNLR (Fronte nazionale di liberazione da Renzi) che non vede l’ora di archiviare l’unica esperienza di centrosinistra rimasta in Europa (l’esito delle prossime elezioni in Francia e Germania mi pare già scritto). Confesso che è un dono di cui farei volentieri a meno, per non subire un’altra volta gli errori del passato, l’intrico del presente e le incertezze del futuro.

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Berlusconi ha annunciato il suo ritorno in campo, e ovviamente esclude il ricorso alle primarie per scegliere il leader del centrodestra. Matteo Salvini e Giorgia Meloni non sono d’accordo, anche perché il primo crede di avere l’investitura già in tasca. Un bel rebus, destinato il 5 dicembre a diventare un enigma che forse nemmeno l’oracolo di Delfi saprebbe sciogliere. Nel frattempo, un gruppo di deputati del Pd vicino al presidente del Consiglio ha proposto di regolamentare per legge la selezione dei candidati a sindaco, governatore e segretario di partito.

L’origine storica dell’idea risale al 22 febbraio 1897, quando il progressista Robert La Follette pronuncia all’Università di Chicago un memorabile discorso contro la corruzione e il dispotismo imperanti nelle macchine di partito americane. Divenuto governatore del Wisconsin pochi anni dopo, La Follette promuove una legge che introduceva le primarie per tutte le cariche elettive. Oggi sono un istituto fondamentale della democrazia statunitense, pur in un cammino secolare segnato da aspri conflitti. Le primarie rispecchiano il principio direttista per eccellenza, che è quello dell’investitura plebiscitaria dei leader politici. In questo quadro, i partiti -da associazioni private- si sono gradualmente trasformati in agenzie di pubblica utilità, che organizzano il processo di formazione della rappresentanza. Ben noti, inoltre, sono i controlli statali invasivi a cui sono sottoposte le loro attività, che ne condizionano fortemente lo stesso funzionamento interno.

Si tratta di un’esperienza, dunque, che matura in un sistema istituzionale assai diverso dal nostro. Nella realtà europea si è fatto ricorso alle primarie (quasi) sempre per risolvere controversie intestine a un partito o a una coalizione. In altri temini, l’appello al responso diretto degli iscritti e dei simpatizzanti era spesso il sintomo di una crisi di legittimità della leadership. Ecco perché abbiamo visto gruppi dirigenti che, pur di sanare contrasti talvolta laceranti, hanno preferito rinunciare alle proprie responsabiltà e alle proprie prerogative decisionali. Mentre in un “partito personale” le primarie o sono finte, o costituirebbero una sorta di “esproprio proletario” di chi ne detiene la totalità del pacchetto azionario. Chiederle al Cavaliere, quindi, sarebbe come chiedergli di recarsi in Svizzera per consumare il suo suicidio (politico) assistito.

Nel centrosinistra le primarie, che risalgono all’epoca dell’Ulivo, hanno avuto un successo notevole perché sono state l’unico mezzo a disposizione dei suoi elettori per far sentire la propria voce. Si sono però esposte a un rischio serio. Da linfa della partecipazione democratica, infatti, si sono in più di un caso tramutate in una agorà manipolata dai demagoghi. Questo non significa sminuirne l’importanza. Significa che senza un partito di riferimento coeso possono prendere il sopravvento scorciatoie di tipo “cesaristico”, anzitutto nelle zone più deboli del Paese (a cominciare dal Mezzogiorno). A mio avviso, anche in questa luce vanno letti taluni episodi di malaffare che ogni tanto proiettano un’ombra sull’irreprensibilità del Partito democratico.

Infine: strategie drammatizzanti, che enfatizzano oltre misura la discontinuità con il passato, forse sono state necessarie per galvanizzare le truppe di Renzi. Hanno tuttavia generato attese eccessive, seguite da risultati deludenti. È lo scoglio su cui si sta infrangendo il suo progetto di Partito della nazione, postmoderno Principe a vocazione maggioritaria (ma anche quello di Antonio Gramsci lo era). Lasciamo stare la questione della sua forma organizzativa. La questione è un’altra. Il partito degli elettori postula il partito degli eletti. E nel partito “pigliatutti” -perché di questo si tratta- conta prendere il maggior numero di voti con ogni mezzo, magari con programmi tagliati ad hoc per i ceti sociali da conquistare o per i territori in cui si compete. Questo, almeno, ci racconta l’esperienza anglosassone del partito elettorale di massa. In fondo, qualcosa di simile lo abbiamo visto nella campagna referendaria, e purtroppo talvolta ha contribuito ad oscurare le buone ragioni che militano a favore della riforma della Costituzione.


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