Il virus del populismo ha infettato anche gli Stati Uniti: in estrema sintesi, è questo il minimo comun denominatore delle (più o meno) raffinate analisi della vittoria di Donald Trump, di cui sono piene in queste ore i nostri quotidiani. Forse ci vorrebbe maggiore cautela nell’uso di termini passe-partout che spiegano poco o niente. Anche in Italia il termine populismo è ormai utilizzato per denunciare qualunque manifestazione di disagio popolare, qualunque sintomo del distacco dei cittadini dalle élite e dal sistema dei partiti. Come si vede, il miscuglio è indigesto e la confusione è grande.
La verità è che quel termine nel tempo si è fortemente allontanato dal suo significato originario. Esso, infatti, designava un orientamento ideologico iscritto nella tradizione politica americana, nientemeno che dai suoi esordi. Da quando cioè nel 1892 il People’s Party cercò di mobilitare il malessere dei piccoli contadini proprietari del Midwest (proprio l’area in cui Trump ha sfondato nell’elettorato operaio e rurale) contro grandi imprese, alta finanza e ambienti corrotti di Washington. Ciò che esso rivendicava era la tassazione progressiva e tutele sociali per i ceti più poveri (qui invece siamo agli antipodi del programma del tycoon dei casinò). Come osserva Alfio Mastropaolo (“Democrazia e populismo“, in “La democrazia in nove lezioni“, Laterza, 2010), fosse stato per il populismo agrario e romantico nato in Russia a metà Ottocento, il termine ce lo saremmo dimenticato. Il guaio è la sua attuale smisurata plasticità semantica, che dovrebbe consigliarne un uso più sobrio e prudente.
In effetti, il rischio di passare per populisti è oggi elevatissimo. Eppure per i partiti (ancora) di massa l’appello al popolo, anche se talvolta viene chiamato volgarmente “gente”, dovrebbe essere fisiologico. Beninteso, senza il paternalismo e la demagogia di cui si servono alcuni leader politici per dissimulare una concezione oligarchica della vita democratica. Ora, se un po’ di populismo lo si può trovare dappertutto, probabilmente sarebbe saggio un uso più sobrio e più preciso la parola. Il paradosso è che, mentre la destra non la disdegna, a una sinistra non più popolare appare sempre più imbarazzante, fino al punto di impiegarla solo in modo snobistico o spregiativo.
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Riassumendo: il repubblicano (atipico) Donald Trump ha vinto (anzi, stravinto) le elezioni, ma Hillary Clinton ha preso circa duecentomila voti più di lui su scala nazionale (non è la prima volta che accade; l’ultimo a cui capitò fu Al Gore nel 2000). I repubblicani, con la minoranza del voto popolare, hanno poi anche la maggioranza nelle due Camere. Il presidente degli Usa, inoltre, nomina i giudici della Corte suprema (previo consenso del Senato). Secondo quelli che… in Italia c’è il rischio di una deriva autoritaria con la riforma costituzionale e con l’Italicum di Renzi (che peraltro non c’è più), sull’altra sponda dell’Atlantico trecentoventicinque milioni di cittadini dovrebbero essere governati, quanto meno, da un regime dispotico.
Ps. Ricordo che nelle elezioni presidenziali americane (che sono un vero e proprio ballottaggio tra due contendenti principali, essendo gli altri solo comprimari) si registra la massima affluenza al voto (molto più alta che nelle mid-term, elezioni solo legislative). Il dato, tuttavia, resta pur sempre molto basso. Nel 2012 l’affluenza fu del 55% circa, in 66 milioni votarono per Obama, 61 milioni per Romney. Totale 127 milioni. Se non ho fatto male i conti (ma i dati disponibili non sono ancora definitivi), l’8 novembre scorso i votanti sono stati circa circa 125 milioni (compresi i candidati indipendenti). È vero che sulla misurazione dell’affluenza alle urne c’è una controversia annosa. Se infatti l’affluenza al voto si misura sulla popolazione in età di voto (gli aventi diritto “teorici”, “Voting Age Population” o VAP) oppure sugli aventi diritto reali (“Voting Eligible Population” o VEP), le percentuali cambiano. Con il secondo criterio, in ogni caso, al massimo siamo intorno al 60 per cento dei votanti. Vale a dire che l’uomo più potente del mondo è eletto con un suffragio pari, nella migliore delle ipotesi, al 30 per cento del VEP. Lascio ai lettori l’onere di trarre le conclusioni da questi numeri.