“L’era del petrolio è destinata a finire”. L’affermazione non proviene da un attivista di Greenpeace o da un filosofo new age, bensì da uno dei maggiori esperti italiani dell’oro nero, Paolo Scaroni, oggi vicepresidente della banca d’affari britannica Rothschild e precedentemente amministratore delegato di Enel, nonché della major internazionale del greggio Eni. “Nel 2018-2019 il prezzo risalirà a 80-90 dollari al barile e magari rivedremo i temuti 100 – ha detto Scaroni nel corso di un recente convegno a Milano – sarà il canto del cigno perché dal 2023 in poi il greggio lascerà sempre più spazio alle fonti rinnovabili che diventeranno meno costose, più efficienti e più disponibili”. Lanciarsi in previsioni sul petrolio è un’attività rischiosa, ammette Scaroni, ma prova lo stesso a fornire le sue stime, anche se “è un’esercizio molto rischioso e ho imparato in questi anni che è più facile sbagliare”.
Innanzitutto, vale la pena capire perché nel corso di 18 mesi il greggio è passato dal valore 115 a 26 dollari al barile, per poi risalire di recente a quota 45. “La discesa precipitosa è stata causata da un insieme di ragioni economiche e geopolitiche – ha detto Scaroni – essendo una merce, è soggetto alle leggi della domanda e dell’offerta e nei tre anni dal 2012 al 2014 il consumo, che è di 92 milioni di barili al giorno, non è cresciuto perché se è vero che in Asia, in Cina in particolare, si sono vendute molte automobili, è altrettanto vero che nel mondo occidentale il consumo delle nostre automobili è sceso abbondantemente, del 30% rispetto a 15 anni fa a parità di cilindrata. Inoltre è entrato in scena lo shale oil americano che è un petrolio imprigionato in rocce calcaree di cui si conosceva l’esistenza da sempre ma non il modo di farlo venire alla luce. In Texas, Oklahoma, North Dakota dove c’erano questi giacimenti inesplorati gli Usa hanno aggiunto 4-5 milioni di barili al giorno in un mercato che non cresceva. Il problema lo hanno creato all’Arabia saudita che si è trovata di fronte a un dilemma: tenere i prezzi del petrolio alti e perdere quota di mercato dando spazio allo shale, oppure, tenendo conto che il costo di estrazione di quest’ultimo è di 50 dollari al barile, far scendere i prezzi e mettere in difficoltà i produttori Usa. La strategia scelta è stata la seconda: non a caso, decine di compagnie Usa di shale oil sono fallite e il numero di pozzi per produrre shale è diminuito in modo consistente”. Poi c’è una ragione geopolitica che sta nella storica rivalità tra Arabia Saudita e Iran. “L’Iran con la fine delle sanzioni è rientrato in scena con il rischio che si riavvicini agli Usa, tradizionali alleati – continua Scaroni – parliamo di un Paese con 80 milioni di abitanti e l’economia basata sul petrolio: quale modo migliore per mettere in difficoltà il Paese se non tenere il prezzo dell’oro nero basso?”.
E l’Opec che fa? “L’Opec vuole che i prezzi salgano, ma non tanto da rimettere in gioco i produttori di shale oil americani. Mi aspetto che restino tra i 50 e i 60 dollari al barile nei prossimi mesi 12-18”. Più avanti, invece, le cose cambieranno drasticamente e si arriverà alla fine dell’era del petrolio. “Il mondo del petrolio finirà – conclude l’ex ad di Eni – e finirà perché riscalderemo le nostre case e uffici con fonti rinnovabili. Le nostre fabbriche funzioneranno con energie rinnovabili. Guideremo automobili elettriche con elettricità prodotta da fonti rinnovabili. Quando avverrà? L’energia principale sarà fornita da sole e vento dal 2025 in avanti. Ma avverrà progressivamente, e nel frattempo il consumo di petrolio avrà ripreso a crescere tra l’1 e il 3% annuo perché miliardi di asiatici ancora scopriranno le auto. Nel frattempo a seguito della caduta dei prezzi, gli investimenti per esplorare nuovi giacimenti sono già letteralmente crollati, negli ultimi due anni si sono più che dimezzati”.