Ultimi frenetici giorni di volontariato in America, quando i voti anticipati nell’ultimo week end prima del big tuesday, sono stati oltre37 milioni, storico record di ogni elezione. Non è una buona notizia per Trump, la cui campagna ha mostrato e pagato la poca esperienza a confronto con la rodata macchina elettorale dei Clinton. Usi e costumi vogliono che a votare in anticipo siano per la maggioranza elettori democratici, mentre i repubblicani affollano i seggi solo il giorno delle elezioni. L’analisi degli early voters (che comprende anche gli americani residenti all’estero o invalidi che hanno votato per posta) dice tanto, e non tutto a favore della Clinton. I voti dei neri, come quelli dei giovani, che hanno fatto la differenza per Obama, non sono ancora arrivati, mentre rispetto al 2012 sono quasi triplicati i voti anticipati degli ispanici, solitamente repubblicani, che hanno votato contro lo spauracchio dei rimpatri, evocato da Trump. Rimane l’incognita dei nuovi elettori, i first time voters che Obama aveva conquistato rinnovando con voti freschi le polverose mailing list democratiche.
Lo staff della Clinton, giustamente preoccupato, ha spedito in questo rush finale, nei licei americani la candidata e i democratici più famosi, Biden, il presidente Obama, persino Jay Z e Beyoncè con una Michelle Obama stranamente defilata. Contemporaneamente i campus sono stati invasi da volontari automuniti, pronti a caricare i 18enni per portarli al seggio più vicino. Passato Halloween è scoppiata una frenetica febbre elettorale anche a New York, gli uffici della Clinton, finora timidamente frequentati da aspiranti volontari, si sono trasformati nell’ultimo week end in affollatissimi call center da cui chiamare, messaggiare e inseguire i milioni di elettori democratici della est cosa per annullare il pericolo dell’astensionismo. Se si può prevedere il successo di un candidato anche dalla composizione dei suoi supporter, si intuisce come Hillary non sia tranquilla della fedeltà di fasce importanti tra chi vota.
A stare in coda per “tenere Donald Trump lontano dalla Casa Bianca”, come recita il sottotitolo ufficiale della campagna di reclutamento, ci sono tante donne adulte, molte anziane, bianche, e probabilmente in pensione, mentre la campagna dei volontari per Obama era un arcobaleno di razze che rifletteva perfettamente lo spettro multicolore del nuovo elettorato americano. Le poche persone al di sotto dei 30 anni sono state subito promosse manager della campagna, accolgono con un sorriso i nuovi volontari, molti dei quali potrebbero essere i loro nonni. Nell’ultimo week-end l’ufficio di Wall street, il più grande di Manhattan, non bastava più ad accoglierli tutti, così è stato aperto un intero nuovo piano, prendendo in prestito gli uffici di una fondazione amica. Al piano terra intanto un migliaio di volontari inviava sms agli elettori indecisi di Pennsylvania e North Carolina, al ritmo hip hop del disc jockey, interrotto solo dai discorsi di incoraggiamento del politico di turno che passa a caricare gli entusiasmi. Sarah Lind, 34 anni, nata in Wisconsin, due figli di 7 e 3 anni da crescere a New York e un master in scienze politiche alla Columbia University, è una delle giovani capitane dell’ufficio di Manhattan: “Registriamo più’ di 500 volontari al giorno, non riusciamo neanche a gestirli tutti”, racconta mentre insegue il figlio più piccolo che gattona sotto le scrivanie affollate di persone che telefonano per Hillary. Sarah continua ad accogliere spontanei candidati, a cui viene affidato nel migliore dei casi un computer e un vecchio telefono fisso (mentre la campagna di Obama dava cellulari a tutti per fare chiamate). Finiti i telefoni e i computer da assegnare Sarah chiede ai volontari di usare il proprio cellulare, mentre qualcuno porta pizza per tutti. L’intervista prosegue mentre la gente in fila protesta perché sebbene abbia ricevuto una mail con la conferma, i biglietti per la notte elettorale con Hillary sono andati esauriti nelle prime ore di sabato. Un attimo di pausa e Sarah riprende: “Non e’ facile ma sono contenta, quando sono entrata speravo di poter aspirare a un ruolo più strategico, come è successo a molti miei colleghi di master, ma sono finita sul campo di battaglia e la cosa mi piace”. “Perche’ lo faccio? – spiega mentre cerca di tranquillizzare una giornalista che non ha ricevuto l’accredito stampa – Perché non voglio che Trump vada alla Casa Bianca, sarebbe terribile”. E Hillary quindi? “Beh se non ci fosse il pericolo Trump non sarei qui”, afferma sincera come molti democratici, scesi in campo più per paura del nemico che per convinzioni personali.
La storia di Sarah e’ un classico esempio della divisione generazionale di questo Paese, a cui si aggiunge la differenza tra chi vive nelle grandi città, democratico, o nei piccoli centri di campagna, repubblicano. “I miei genitori vivono in Wisconsin, sono da sempre repubblicani e voteranno Trump, da due mesi sto evitando di parlare con loro, non capirebbero. Ma anche i miei coetanei laggiù, votano Trump. Il problema e’ che lo fanno non perché apprezzino Trump, ma perché odiano Hillary. D’altro canto io ho registrato come volontari un sacco di repubblicani qui a New York, che sostengono Hillary perché odiano Trump” (una speranza in più nel voto disgiunto, che in America è sempre possibile ndr).
Non sono delle grandi elezioni queste, come non lo sono i temi discussi dai candidati. Per una scelta strategica, la campagna della Clinton ha deciso di seguire Trump sul terreno sporco degli insulti personali e della denigrazione dell’avversario, la politica estera a parte i plausi pro Putin di Trump e le sue accuse a Hillary per la strage all’ambasciata Usa di Bengasi, è rimasta fuori da ogni discussione. “Eppure – continua Sarah – la campagna strategicamente è gestita benissimo, ogni giorno dal quartier generale arriva una nuova lista di persone da chiamare e convincere, ieri abbiamo chiamato tutti i democratici per farli votare prima, oggi sono arrivate le nuove lista diversa da chiamare: elettori che non hanno votato né alle primarie né alle elezioni del MidTerm e che, repubblicani o democratici, sono sicuramente indecisi. Domani vedremo chi ci diranno di far chiamare per l’ultimo frenetico giro di telefonate”. Ogni persona inclusa nelle liste della campagna al momento di registrarsi per votare – la registrazione è obbligatoria in America – se vive in uno swinging state, è stata chiamata al telefono almeno 5 volte , mentre almeno tre volontari hanno bussato alla sua porta per convincerla a votare e per consegnare volantini elettorali (in molti Stati è reato inserire materiale pubblicitario nelle buche della posta). Ogni chiamata avviene grazie a un modulo con i dati personali in cui riportare gli esiti della telefonata, divieto assoluto di impegnarsi in discussioni politiche troppo accese: “Se qualcuno ha deciso di votare per Trump non provate a convincerlo, salutate e chiamate qualcun altro” è l’ordine di scuderia. “Anche io sono rimasta delusa dallo scarso interesse per i giovani, abbiamo provato in mille modi a coinvolgerli, ma senza risultati”. Come biasimarli? Non solo nessuno dei candidati in questa campagna ha mai affrontato temi importanti per i millenials, ma molti di loro sono nati quando la Clinton era già First Lady, un po’ come votare in Italia per Flavia Prodi. Con Obama invece c’era un’altra intensità, e i giovani sono accorsi in massa, attratti dalle grandi aspettative. “Questa volta non ci sono grandi aspettative, e quindi non andranno deluse, e vale per entrambi i candidati”, ammette Sarah sulle porte della metropolitana, che dopo tre mesi, finalmente, la riporta a casa per la prima volta prima delle dieci di sera.