È finita male per quella che doveva essere finalmente la grande riforma della Costituzione. Matteo Renzi non passerà alla storia come l’emulo di Charles De Gaulle, che nel 1958 traghettò la Francia alla quinta Repubblica, sottraendola finalmente al pantano del parlamentarismo. Al di là del consistente numero di articoli che venivano modificati, ben 47, si toccavano due temi cruciali dell’ordinamento, quello del ruolo del senato e quello dei rapporti tra Stato e Regioni. Ma, soprattutto, si individuava come vincolo per la legislazione statale e regionale il rispetto degli obblighi derivanti dalla partecipazione all’Unione europea.
Riducendo il ruolo del senato, trasformato in assemblea delle autonomie, riportando allo Stato le competenze legislative trasferite nel 2001 ed enfatizzando la priorità europea, si coltivava l’obiettivo di una democrazia più efficiente, governante, attraverso la riduzione dei tempi e soprattutto delle sedi della mediazione. Il premio si maggioranza alla lista e non più alla coalizione, prevista dall’Italicum, si iscrive in questa medesima strategia.
In parlamento non si era raggiunta, e forse neppure è stata ricercata, quella maggioranza dei due terzi che avrebbe evitato il ricorso al referendum. Sarebbe stato comunque molto difficile raggiungere una così larga convergenza parlamentare su un progetto così ampio e incisivo, ma è sembrato che il governo Renzi abbia perseguito sin dal suo insediamento l’obiettivo di intestarsi direttamente questa riforma e di voler ricorrere al referendum per ottenere un’investitura popolare diretta.
Molti elementi hanno influito sull’amplissima partecipazione al voto. In primo luogo, c’è stata la volontà dei cittadini di rimanere protagonisti della vita politica: non solo rispetto ai numerosi governi affidati a premier che non si erano candidati alle elezioni per guidare il proprio partito o coalizione ma, soprattutto, come reazione all’impoverimento e all’espropriazione dei diritti sociali subiti in questi anni di crisi. Non si tratta solo di una bocciatura del governo e della sua riforma, ma dell’intero processo di progressiva divaricazione tra le aspettative dei cittadini, vecchi e giovani, e la realtà economica e sociale.
L’elevata partecipazione al referendum costituzionale dimostra che da parte dei cittadini non c’è stata la vecchia tentazione di rintanarsi in un contesto privato, più o meno familiare o di clan, che ormai si dimostra incapace di garantire sicurezza e prospettive di crescita a fronte della debolezza della economia e delle istituzioni. Non c’è stata, dunque, una tendenza alla dissociazione tra il destino dei singoli e quello delle istituzioni, ma una bocciatura netta di quella che privilegia la democrazia governante rispetto a quella rappresentativa.
Un elemento caratterizzante questa campagna referendaria è stato il profluvio di messaggi sui media tradizionali e sui social: è stata un’occupazione totalizzante di ogni spazio possibile, da una parte e dall’altra, con la duplice polarizzazione tra i sostenitori del #bastaunsì ed i fautori del #iovotono. E’ stata una sovrastruttura mediatica, che ha illuso gli uni e gli altri, e soprattutto ha distratto l’attenzione di tanti rispetto alle dinamiche sociali in atto.
Questo voto referendario italiano ha un valore dirompente, analogo a quello per la Brexit e le elezione di Donald Trump alla presidenza Usa. E’ un ulteriore segnale che si va ampliando la cesura tra i processi democratici, le dinamiche di mercato e gli assetti statuali, e della difficoltà di considerare il mercato come variabile indipendente a cui ci si deve coordinare per assicurarne il buon funzionamento.
Le conseguenze del risultato referendario italiano si sono già riflesse sui mercati: l’euro si è indebolito sul dollaro, arrivando ad 1,05. Ci saranno fibrillazioni sul debito pubblico, ampiamente previste. Il sistema bancario italiano avrà sicuramente maggiori problemi nell’affrontare i processi di ricapitalizzazione.
Lo snodo è chiaro: dopo la crisi finanziaria del 2008 abbiamo cercato soluzioni attraverso un’accentuazione dei poteri del mercato e delle sue regole. Al fallimento del mercato abbiamo risposto con ancora più mercato, anziché regolamentarlo: abbiamo imposto il pareggio strutturale dei bilanci pubblici, considerati la causa di ogni problema mentre ne erano state le vittime; abbiamo creato vincoli all’ogazione del credito da parte dei sistemi bancari che invece erano stati intossicati dalla finanza derivata e indeboliti dalla crisi economica; abbiamo sancito il divieto di aiuti di Stato alle banche in difficoltà, mettendo in dubbio la fiducia dei risparmiatori.
E’ stato un voto a favore della pienezza della rappresentanza democratica a tutela degli interessi dei cittadini, prima ancora che sulla composizione e sulle competenze degli organi che formano le leggi. E’ su tutto questo, e soprattutto sull’ulteriore accentuazione e accelerazione di questi processi di mercato, che sarebbero stati garantiti dalla riforma costituzionale, che il voto degli italiani è stato ampiamente e nettamente contrario. E’ di questo che i mercati, ora hanno timore.