Una tesi dominante nel pensiero di Piero Gobetti (1901-1926), che ha esercitato un’enorme influenza su tutto il pensiero laico italiano, è quella secondo cui l’arretratezza dell’Italia deriva dal fatto che nel nostro Paese è mancata una Riforma protestante, la quale avrebbe invece garantito prosperità e sviluppo economico e politico alle nazioni più avanzate dell’Europa settentrionale. La tesi di Gobetti nasce vecchia. Viene dall’economista ginevrino del primo Ottocento Jean-Charles Léonard Simonde de Sismondi (1773-1842), cui aveva risposto nel 1819 anche Alessandro Manzoni (1785-1873) con le sue Osservazioni sulla morale cattolica. L’opera di Sismondi, ben prima di Gobetti, era considerata ampiamente superata. Ma le cose erano cambiate quando in Italia si era cominciata a leggere l’opera sociologica di Max Weber (1864-1920). Fra il 1904 e il 1905 Weber pubblica la prima edizione di uno dei lavori più importanti nella storia della sociologia, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, dove sostiene la teoria delle “affinità elettive” fra il protestantesimo calvinista e il processo di modernizzazione collegato al capitalismo.
Alle origini di questo processo sta, per Weber, l’idea calvinista della predestinazione – al cielo o all’inferno – e di conseguenza la domanda angosciosa che ogni buon calvinista si pone circa la propria salvezza. Giacché un certo calvinismo interpreta il successo mondano come segno di una predestinazione favorevole, chi vive di questa teologia – proprio per liberarsi della domanda ossessiva circa la salvezza eterna – s’impegna a conseguire il successo nell’economia, negli affari, nell’amministrazione dello Stato. La dottrina della predestinazione gioca così a favore del capitalismo, e anche dello sviluppo dello Stato moderno e delle sue burocrazie.
La tesi di Weber suscita quasi immediatamente un enorme interesse nell’Italia dei primi anni del secolo XX, proprio perché s’inserisce nel dibattito – in corso da decenni, se non da secoli – sul presunto danno arrecato all’Italia dalla mancata adesione alla Riforma protestante. All’alba di un nuovo secolo, può sembrare che l’opera di Weber possa finalmente offrire la chiave scientifica per confermare la vecchia tesi di Sismondi. La teoria che identifica il progresso economico e politico con il protestantesimo e l’arretratezza con il cattolicesimo passa, per così dire, dall’utopia alla scienza. Queste idee diventano così comuni da essere incessantemente ripetute – in una sorta di grande vulgata neo-weberiana – nei libri di testo delle scuole e nella stampa quotidiana, fino a passare nel grande catalogo popolare dei luoghi comuni. Ma il luogo comune riposa su una pessima lettura di Weber.
Il sociologo tedesco non sostiene affatto che quanto chiama “spirito capitalistico” sia “soltanto […] emanazione di determinate influenze della Riforma”, e meno ancora “un prodotto della Riforma”. Weber sa bene che questa tesi, che definisce “scioccamente dottrinaria”, cadrebbe di fronte alla semplice osservazione storica secondo cui “certe forme importanti di impresa commerciale capitalistica sono notoriamente assai più antiche della Riforma”. Era questa la principale obiezione al recepimento di una vulgata weberiana in Italia – dove i cittadini di Firenze e di Prato, per esempio, non avevano atteso Giovanni Calvino (1509-1564) per dare prova di spirito capitalistico – formulata in un’importante opera di Amintore Fanfani (1908-1999), Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica del capitalismo, che ebbe a suo tempo vasta risonanza e che vale sempre la pena rileggere, insieme del resto ai riferimenti critici alla tesi di Weber nelle opere del sociologo tedesco Werner Sombart (1863-1941).
Weber, dunque, non pensa affatto che il protestantesimo abbia creato il capitalismo. Si limita a trasporre il concetto di affinità elettive di Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) dalla psicologia letteraria alla sociologia, affermando che ci sono delle affinità di questo genere fra un certo protestantesimo e il prevalere del capitalismo su altre forme di produzione e di economia, che è appunto cosa diversa dalla nascita del capitalismo. Inoltre – ma non si tratta di un punto secondario – Weber non sostiene neppure che tutto il protestantesimo si sia trovato in una situazione di affinità elettiva rispetto allo “spirito del capitalismo”. Il sociologo tedesco tende anzi a escludere da queste affinità Martin Lutero (1483-1546) e tutto il protestantesimo della prima generazione. Per lui è piuttosto un protestantesimo di seconda generazione, che chiama “protestantesimo ascetico”, ad aver favorito il successo dello spirito capitalista moderno. Nel protestantesimo ascetico Weber rubrica il calvinismo (ma “nella forma che esso ha assunto nelle principali regioni dell’Europa occidentale in cui è dominante, particolarmente nel corso del secolo XVII”, quindi il calvinismo dopo Calvino), “il pietismo”, il “metodismo”, e quelle che chiama “sette sorte dal movimento battistico”.
Non è questa la sede per indagare se – sul terreno della storia e della sociologia delle religioni – la tesi di Weber sia interamente corretta. Gli storici hanno sottolineato in particolare l’influenza su Weber del teologo di Berna Matthias Schneckenburger (1804-1848), i cui saggi – popolari nel secolo XIX – sono oggi considerati come datati e imprecisi. Giova però osservare che il protestantesimo che Weber chiama ascetico – il solo, fra i molti protestantesimi, che Weber colleghi davvero al capitalismo – ha avuto certamente un ruolo dominante, in certi periodi storici, in Olanda, in Inghilterra e negli Stati Uniti d’America. Ma in altri Paesi europei il protestantesimo dominante è rimasto quello di tipo luterano o proto-calvinista diverso, come si è accennato, dal calvinismo dopo Calvino di marca presbiteriana e puritana. Quando si confronta lo sviluppo di questi Paesi – la Germania, la Scandinavia, molte regioni della Svizzera – con quello dell’Italia, invocare l’autorità di Weber significa, semplicemente, non aver letto il suo testo.
L’etica protestante di cui parla Weber certamente non è il protestantesimo di Lutero e della Scandinavia luterana e neppure, in senso stretto, il calvinismo delle origini e della tradizione ginevrina. L’uso polemico di Weber poteva avere un senso nelle polemiche fra clericali e anticlericali dell’epoca fra le due guerre mondiali. Oggi nuoce a una corretta ricostruzione dei rapporti fra protestantesimo ed economia, nuoce all’ecumenismo e nuoce anche alla sociologia, che è qualcosa di più serio dei suoi usi polemici e caricaturali.