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Che cosa cela il compromesso della Bce di Mario Draghi sul Quantitative easing

Bail-in, MARIO DRAGHI, compromesso

Tapering or not tapering? I mercati sono rimasti spiazzati dalle parole di Mario Draghi e non gli hanno creduto del tutto. Scontato il prolungamento della politica monetaria espansiva e dei tassi zero (anche se molti si attendevano solo sei mesi, vista la svolta ormai annunciata dalla Federal Reserve che si prepara ad alzare gli interessi), tutta l’attenzione si è concentrata sulla notizia inattesa che la Bce comprerà titoli per 60 miliardi di euro al mese a partire da aprile, anziché gli 80 miliardi attuali.

Draghi ha detto che il tapering vero e proprio, cioè la riduzione progressiva degli acquisti di bond fino ad annullarli, come fece la Federal Reserve, non è stato nemmeno discusso. Può darsi che gli operatori di borsa e gli analisti corrano troppo avanti, tuttavia l’annuncio ha un senso che non può essere negato e si capisce meglio se dalla economia si passa alla politica.

Il presidente della Bce ha ripetuto che l’economia della zona euro cresce, ma non abbastanza e l’inflazione è ancora lontana dall’aumento del 2% annuo che rappresenta l’obiettivo che la banca si è dato (di questo passo dovrebbe arrivare all’1,7% solo nel 2019). Dunque, non c’è alcun bisogno di cambiare direzione. Allora perché rallentare il passo? Perché si è già fatto il pieno e cominciano a mancare i bond privati da acquistare? Non solo.

II compromesso (quantitative easing più lungo, ma per importi inferiori) ha trovato il voto contrario della Bundesbank. La Bce ha acquistato finora titoli per 1.600 miliardi di euro; di questi, 1.212 sono titoli di Stato. I tedeschi insistono nel sostenere che questa politica monetaria serve soprattutto a tenere in piedi i Paesi deboli. Draghi ha negato apertamente di aiutare l’Italia. Intanto, dalla Grecia arrivano nuovi segnali di tempesta che ripropongono la solita tiritera tra chi incolpa l’austerità, e chi il mancato risanamento dell’economia.

La Bce è indipendente, ma non è cieca né sorda. Quindi è probabile che la sua decisione sia stata dettata anche (se non in modo prevalente) da considerazioni politiche. Il 2017 è l’anno in cui si voterà in Francia, in Germania e in Italia, cioè nei tre Paesi più grandi e importanti dell’Eurolandia. La banca centrale offre tutto il sostegno possibile all’economia in modo da non creare nessun sussulto. I tedeschi rimarcano il loro no, accontentando così gli elettori di centro-destra e la massa di risparmiatori preoccupati perché le loro rendite finanziarie di sono ridotte. Ma a questo punto se ne parla dopo il voto. Chi vincerà vedrà. Intanto, in Francia la retorica lepenista e anti-europeista risparmierà la Bce che sta facendo tutto quel che è nelle sue prerogative. E in Italia?

Nei confronti del futuro governo pre-elettorale che si insedierà a Roma il messaggio è duplice: se da un lato non ci sarà nessuna stretta monetaria, dall’altra c’è un chiaro invito a mettere mano ai conti pubblici. Potremmo dire che Draghi ha dato tempo fino ad aprile, cioè quando l’Unione europea farà un check-up completo al bilancio dello Stato e con tutta probabilità chiederà di impostare una manovra aggiuntiva. Non dimentichiamo che sulla testa del futuro governo transitorio pende ancora l’aumento dell’Iva, perché le clausole di salvaguardia restano in funzione fino al 2018.

Proprio in vista di questo anno cruciale per le sorti dell’Unione europea, Draghi ha annunciato che lui terrà la barra dritta, ma non ha intenzione di fare sconti, tanto meno alla classe politica del suo Paese che sta ballando mentre la nave rolla paurosamente e la punta dell’iceberg s’avvicina. Nessuno è profeta in patria, dicevano gli antichi, infatti Draghi fa il profeta a Francoforte.

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