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Diciamo addio all’Europa di Maastricht?

Giuseppe Pennisi

Prosegue il dibattito su presente e futuro dell’Unione economica e monetaria. Dopo la proposta di Giorgio La Malfa e Paolo Savona, e l’analisi di Giovanni Tria, ecco l’intervento di Giuseppe Pennisi

L’articolo di Giorgio La Malfa e Paolo Savona sulle riflessioni che la Germania deve fare sul futuro dell’euro è una proposta sintetica ma articolata, frutto di due anni di scambi di idee nei “cenacoli” della Fondazione Ugo La Malfa l’ultimo giovedì di ciascun mese a cui ho spesso partecipato. Rispecchia, quindi, in gran parte anche il mio pensiero, che, quando lo esprimevo in una rubrichetta quotidiana su Il Foglio nel 1992-96, veniva accusato di essere anti-europeista, euroscettico, ove non motivato da disegni oscuri architettati alla Cia o di quel-che-restava del Kgb.

Vorrei, però, porre l’accento sull’addio all’Europa di Maastricht, non all’Europa, in una prospettiva leggermente differente e formulare un paio di proposte più specifiche. Spesso si dimentica che l’unione monetaria non fu una proposta della Germania. Berlino avrebbe risposto alla propria unificazione chiedendo ai partner europei o di accollarsene parte del costo (tramite un aumento dei tassi d’interesse pilotato da Francoforte allo scopo di finanziare la ricostruzione e lo sviluppo dei Länder orientali senza iniettare inflazione oppure tramite un apprezzamento del marco). Venne proposta dalla Francia per evitare, con un possibile apprezzamento del marco (che sarebbe stato forte), la fine del “patto del Louvre” del 1987 (che aveva fissato le parità centrali tra le monete dei due Paesi e che rappresentava l’ancora delle politica industriale francese) e con esso dell’architrave franco-tedesco nella costruzione dell’Europa.

L’Italia non solo per orgoglio nazionale (non si voleva essere secondi a nessuno dei Paesi fondatori dell’Unione europea, Ue) si accodò nell’illusione che vincoli esterni alla politica economica ci avrebbero costretto a risolvere almeno parte dei nostri problemi. Pochi ricordano che la situazione dell’Italia, già grave, era stata resa più difficile nel novembre 1989 quando il Tesoro e la Banca d’Italia decisero di abolire le ultime vestigia dei controlli sui cambi e simultaneamente far entrare la lira nella “fascia stretta” degli accordi europei sui cambi (misura che ove suggerita avrebbe comportato una bocciatura ad un esame d’economia di primo anno). Ciò innescò un apprezzamento strisciante ma sostenuto della lira che portò alla crisi dell’estate 1992 e al “rientro” a cambio sopravvalutato nel 1996. Tale apprezzamento si è aggravato anno dopo anno perché la produttività italiana ristagnava mentre quella di altri Paesi (Germania in primo luogo) cresceva.

Prima dell’unione monetaria, nel consesso europeo, la Repubblica federale tedesca aveva una posizione analoga a quella dell’Impero di Bismarck: qualsiasi suo starnuto in politica economica si trasformava in una bufera sul resto del continente, ma al tempo stesso non era abbastanza forte di prendersi cura dei problemi di tutti i Paesi europei. Nessuno, neanche i tedeschi, vogliono ripetere l’esperienza di quando la Germania tentò di realizzare Europa unita e moneta unica. Oggi, l’unione monetaria ha esacerbato la posizione della Germania (e di un piccolo gruppo di Paesi a lei legati) ed ha reso più difficile la situazione per tutti.

Non ritengo che la Germania sia disposta a rivalutare unilateralmente e da sola. La seguirebbero un piccolo gruppo di altri Paesi e si realizzerebbe il progetto olandese di un’Europa sostanzialmente a due euro, uno ‘aureo’ e l’altro “normale”. Una soluzione di breve periodo.

Il passaggio migliore sarebbe quello di tornare a tassi di cambio moderatamente flessibili gestiti collegialmente e sostenuti da istituzione finanziarie internazionali (Bce, Bei) che abbiano in vario grado il compito di promuovere la convergenza. Quindi, una Bretton Woods all’europea e adattate alle esigenze del XXI secolo.

Il vero nodo è come farlo senza fare sì che i Paesi dell’Europa meridionale subiscano in una prima fase una massiccia svalutazione, particolarmente forte per coloro a reddito fisso come i dipendenti della pubblica amministrazione.

Non mancano esperienze di unioni monetarie che si sono trasformate, dissolte ed in certi casi ricostituite dopo avere trovato il percorso della convergenza ed avere fatto parte del cammino. La proposta concreta è che venga fatto uno studio economico approfondito di queste esperienze. Idealmente dovrebbe essere condotto a livello europeo. Altrimenti, potrebbe essere commissionato dal Governo a un gruppo di buoni istituti di ricerca italiani come base per una nostra proposta al resto dei Paesi dell’area dell’euro.

Altra proposta è quella di un’analisi giuridica sui margini che gli attuali trattati forniscono per rivedere periodicamente i cambi tra gli euro emessi dai vari Paesi dell’unione monetarie.

Se nessuna di queste proposte è accettabile, se ne formulino altre che lo siano. Non si può eludere il problema.



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