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Vi racconto i fertilizzanti di Isis

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La sequenza degli atti e la loro dinamica sono pressoché note, dalla fortezza di al-Karak ad Ankara, a Berlin Charlottenburg su una spanna di una settimana o meno: la vicinanza della riunione di Mosca ed i fatti di Aleppo ne costituiscono le condizioni al contorno.

Da rilevare in questa fase convulsa la grande enfasi data della stampa e dei media, non solo in Italia, ai tre eventi, forse perché ci si trova in vicinanza del Natale e le tre città scelte sono sedi prescelte di vacanze e visite turistiche. L’allarme generato però è, a mio avviso, superiore al necessario e qui si aprono interessanti considerazioni sul ruolo dell’informazione pubblica, che è spesso uno dei risultati cercati dalle new waves del terrorismo.

Non affronto questo tema per sviluppare piuttosto un’analisi evolutiva del terrorismo islamico nel primo quindicennio del XXI secolo e, possibilmente, anche per dare alcune indicazioni, in sintonia con la comunità internazionale degli analisti geopolitici e degli studiosi di terrorismo, sulle nuove contromisure attuabili.

Ad Ankara forse il fatto più grave, asimmetrico baricentro degli altri due: viene ucciso un uomo mite e colto, l’ambasciatore della Federazione Russa in Turchia Andrei Karlow, amante dell’Italia e di Amalfi, buona comprensione dell’italiano, primo Segretario a Berlino Est nel 1983, al declinare della parabola sovietica, ma ancora diplomatico sovietico. Si trovava, ad Ankara, senza scorta ad una manifestazione culturale nel quartiere diplomatico di Çankaya, al palazzo delle esposizioni Çağdaş Sanatlar, su “Come i Turchi vedono la Russia”. La Turchia da quando ha multi-vettorializzato la sua politica estera – ancora ieri un rappresentante dello AKP, il partito del Presidente – dichiarava che la Turchia non è né Occidente, né Oriente, magari una sintesi o forse una nuova forma diversa dei due.

Ma da quando si è Davutoglu-aniamente aperta all’Oriente e un po’ messa in disparte dall’Occidente, i motivi di instabilità sono effettivamente aumentati. Non può ora, come ai tempi della guerra Iran-Iraq, seraficamente commerciare con i due contendenti come se niente fosse. Ora poi che i rapporti con la Russia sembravano ricostituiti avviene questo assassinio così timely, a seguito del quale Mosca ha subito ricordato che la tutela dei diplomatici è compito principale dello Stato ospite, un principio basilare!

A Berlino i tedeschi scontano una certa sufficienza nei confronti del terrorismo islamico, il Paese è stato colpito ultimamente ma non con la stessa intensità di Belgio e Francia. Le valutazioni su identità e motivazioni degli autisti del tir sono in corso con qualche difficoltà ammessa dal Ministro degli Interni De Maizières, ma anche qui c’è stato un succedersi di eventi premonitori della evoluzione in atto: mesi di aggressioni, esplosioni di auto e avvertimenti a livello locale con attori – quelle poche volte che la Bundespolizei ha potuto asseverarli – di provenienza dalle aree di immigrazione.

Ad Amman la situazione non è meno tesa, anche se non al livello turco. Negli ultimi due anni c’è stata una sequenza “sismica” di eventi ostili nella monarchia Hashemita che condivide un lungo confine con Iraq e Siria e che è difficile porre nel letto di Procuste di un malessere islamico frizionale. Il principe Rashid bin Hassan, capo delle forze di sicurezza e cugino di Re Abdallah, sembrerebbe avere la situazione sotto controllo, ma il livello di insicurezza nella pacifica e tollerante Amman negli ultimi anni è salito, complice anche la costante di una economia che non è mai decollata e di un forte flusso di profughi siriani in fuga da Raqqa e dintorni. Il primo Ministro Hani al-Mulki ha formulato le condoglianze per la vittima canadese, ha riconosciuto che esiste un legame sotterraneo tra gli atti ostili e i sabotaggi che il Paese ha subito recentemente e si è detto preoccupato per le conseguenze sul turismo, un importante cespite della zoppicante economia nazionale.

Quale è l’evoluzione del fenomeno e l’impatto con le politiche degli attori principali nel presente?

Sullo sfondo ci sono le macropolitiche di difesa ed intervento degli Usa, con appoggi franco-inglesi talvolta, che hanno dato, oramai si può trarre a bilancio, una sferzata più a destabilizzare l’area mediorientale che a comporne gli storici e incancreniti conflitti. Washington poi non ha un perfetto succedaneo nella Federazione russa in quell’area e le due ex-grandi Potenze hanno più motivi di contrasto che di cooperazione.

Da al-Qa’ida al sedicente califfato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi, dagli eventi in Yemen alla “guerra di Siria” si articolano gli enjouex del terrorismo islamico moderno, con appendici in Europa, in America e in Africa, costituendo un mosaico assai difficile da decrittare e decostruire.

Come sembrano oggi remoti i tempi dai Fratelli Musulmani alla stagione dei massacri in Algeria, dalla guerra civile in Libano alle vicende del Golfo… eppure gli ingredienti sono sempre gli stessi: il petrolio, l’Islam, il controllo di una statualità incerta e maldefinita, la definizione di nuove demarcazioni etnico-religiose, il conflitto interreligioso islamico.

Se si va a rivedere, per es. su Mercuri et al., Univ. Cattolica, la nascita delle moderne Siria, Iraq e Giordania si comprende subito che se non componi un confitto all’origine poi questo, per così dire, rigurgita; lo stesso vale per la grande nazione curda, mai costituita, o per le rivendicazioni sullo Hatay, tanto per rimanere nell’area.

Che fare nel medio termine? Evoluzione del sistema di intelligence e contromisure.

E’ chiaro da tutto ciò che, nell’ultimo quindicennio, abbiamo assistito ad una torsione del sistema del terrore islamico, in parte naturale ed in parte indotta dai feedback delle politiche contro-adottate. Le lotte interne tra fazioni hanno portato all’emergere ed allo scomparire di componenti jihadiste, a volte con operazioni di vero e proprio merging, altre volte con la loro sparizione in un buco nero della galassia islamica, si veda a questi proposito la Galassia Islam di K. Mezran, Il Mulino.

E’ evidente che il sistema di contrapposizione debba reagire con una torsione di pari intensità e della stessa traiettoria in modo da adeguarne il take-up, soprattutto nelle modalità di contrasto alle mutate condizioni di ingaggio.

In effetti da un terrorismo standard si è andati ad uno de-territorializzato ed ora ad uno de-gerarchizzato, con una modalità di azione che definirei di networking nelle modalità di contrasto.

Si è iniziato con uno spostamento delle “lotte di liberazione” su fronti multipli e con modalità semiautonome, soprattutto nel reperimento dei fondi per il finanziamento delle attività, ma ancora con linee guida e disposizioni provenienti da alcune, poche e ben definite, centrali del terrore. In questa fase c’erano ancora obiettivi “alti” del tipo le Twin Towers o prima ancora le Olimpiadi di Monaco di Baviera, oppure bersagli di alto profilo politico, ricordiamo i presidenti Sadat o in tempi più recenti Hariri.

La ulteriore dispersione sul territorio e la devoluzione della gerarchia ha portato a forme che si sono evolute verso le modalità odierne: tante unità combattenti con guide locali e risorse autonome, persino una schiera non infima di convertiti o ri-convertiti. Esse agiscono su un fronte amplissimo coinvolgendo obiettivi più modesti, riguardanti immobili e persone del pubblico, la gente comune insomma.  Lo sforzo di progettazione è ridottissimo, non occorrendo usare esplosivi di difficile gestione, e il surplus di panico alimentato da una diffusione mediatica parossistica, come drogata dalla notizia, supplisce la mancanza di cifre rilevanti nel numero di vittime o nell’ammontare dei danni. Ma il panico e il disorientamento sono massimi, quindi l’obiettivo rimane lo stesso, venendo perseguito in altro modo, dato che la prevedibilità, il contrasto da allocare e la distribuzione sul territorio di tali azioni non sono formulabili con precisione. Nelle ore successive all’attentato berlinese, sulla Kurfürstendamm cioè sull’area della opulenza storica della capitale già divisa, esprimeva con chiarezza questi concetti ai giornalisti italiani il Presidente di CeSI, Andrea Margelletti: massimo risultato di destabilizzazione con minimo sforzo, sembra un teorema matematico!

Che fare in questa mutata situazione?

Abbiamo da tenere fermi alcuni capisaldi: che i sistemi europei di intelligence cooperino in modo da spingere il coordinamento e lo scambio di informazioni è buona cosa, ma i detrattori di questa filosofia buonista europea dicono che i vari Servizi sono cosi diversi e così gelosi dei loro data-base che qualche intoppo ci sarebbe già in partenza.

Inoltre i critici asseriscono che una associazione di Stati che non è riuscita neanche a coordinare una politica fiscale comune, basata in effetti sullo scambio di informazioni di natura tributaria, non parte con il piede migliore per coordinare quella della sicurezza, anche se l’obbiettivo non è immediatamente monetario e corrisponderebbe al bene superiore della sicurezza.

Sulla storia negli ultimi 30 anni dei Servizi italiani e sulle loro difficoltà ad adattarsi ad operare in un contesto geopolitico e geo-economico diverso rimando alle considerazioni del Prof. Giancarlo E. Valori in vari articoli pubblicati su Formiche.net al riguardo della intelligence in generale e della intelligence economica in particolare, vero snodo per comprendere le moderne torsioni del terrorismo islamico e dei suoi finanziatori occulti.

A questo proposito va anche segnalato che in Italia manca una normativa chiara che obblighi le imprese operanti in mercati ad alto rischio ad occuparsi proattivamente della sicurezza del personale. In realtà non ci sono nemmeno Direttive UE riguardanti operazioni di tutela e prevenzione, magari in collaborazione col settore pubblico, in tutte quelle aree dove sono presenti cantieri di Paesi europei.

Negli ultimi cinque anni alte – ed altre – istanze operanti nel settore della sicurezza hanno badato a costruire un safety net collaborando principalmente con Israele e con altri partner europei e non, che hanno sviluppato metodi avanzati di previsione e prevenzione adeguati alle fasi evolutive più recenti. A chi spesso si è chiesto come mai in Italia non si siano abbattuti fatti e misfatti che hanno colpito duramente altri Paesi europei questa linea di azione può fornire, ne sono certo, una parziale risposta.

Gli analisti e gli studiosi citati supra non insistono prudentemente sul fatto che questo tipo di rischi sia difficilmente contrastabile; la parcellizzazione del terrorismo islamico diventa un fenomeno paragonabile a quello geologico del terremoto che non finisce mai. Bisogna abituarvisi costruendo dimore antisismiche. Quale è il parallelo sociale di questa bella immagine, peraltro di non facile e immediata attuazione neanche nei terremoti?

Oltre alle soluzioni classiche di una certa Sociologia evergreen di sviluppare la assimilazione o integrazione degli immigrati – poiché larga parte della jihadizzazione proviene dalle banlieux e dalla ignoranza abissale delle masse che vi abitano – vi sono le attività di cyber-sorveglianza e di cyber-controllo che possono spingersi a livelli comparativamente elevati, anche con la collaborazione dei grandi produttori ed operatori di ICT.

Ma alcune politiche attive prevedono la istituzionalizzazione di quella odiosa procedura che era in auge nella vecchia DDR, e cioè il reclutamento di collaboratori informali diffusi sul territorio, i cosiddetti IM, che servirebbero ad un monitoraggio stretto, capillare e, per così dire, di ultima istanza.

La battaglia non è più costituita di grandi mosse su cui la macchina mediatica a ragione o a sproposito sale avidamente come l’11 settembre e la guerra del Golfo. Il nuovo campo di battaglia è ubiquitous, inafferrabile, reticolare, una bella immagine di esso potrebbe essere quella di internettizzato, recentemente data dall’inventore della rete Tim Berners Lee.



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