Innanzitutto le ragioni del voto, nonostante gli auspici, sono andate oltre il merito e i contenuti della riforma costituzionale, approvata dal parlamento il 12 aprile 2016, al termine di un processo durato due anni e quattro giorni, sei letture e 173 sedute parlamentari . Nei fatti, l’appuntamento elettorale si è trasformato in un “referendum politico” sulla persona del presidente del consiglio e sull’operato del suo governo, che includeva le riforme, ma non si limitava ad esse. È per questo che la cronaca del voto, destinata a diventare una pagina di storia del Paese, consegna l’immagine di un “leader solo” contro tutti. Contro i principali partiti di Grillo e Salvini, Berlusconi e Meloni e, persino, contro la minoranza del Pd di Bersani e Speranza che, dopo aver votato la riforma in Parlamento, ha scelto di non appoggiare al referendum la linea del segretario Renzi.
Alcuni analisti si sono chiesti se in una situazione politica così ostile valesse la pena proporre un referendum al Paese. Il presidente Renzi contava di rinforzare il suo antico progetto di partito della Nazione per raccogliere consensi tra i moderati del centrodestra e per dare cittadinanza a quella parte di società civile apartitica e silente, sempre più numerosa e ago della bilancia di qualunque votazione. Ma è stata questa fascia di elettorato, composta da un’anima “riflessiva” e da un’altra tendenzialmente “istintiva”, a negare l’appoggio al presidente Renzi e alle sue riforme. Il bacino di questo elettorato, ormai orfano di riferimenti politici, non è stato neppure intercettato o orientato dalle molte categorie di rappresentanza sociale — come Confindustria, Coldiretti, Cna, Confcooperative, Confartigianato, Cisl, Uil, Confimi, Legacoop, il mondo Acli e altre associazioni minori — che pure avevano dichiarato il loro appoggio alla riforma.
Il “voto anomalo” ha così determinato una vittoria senza determinare alcun vincitore, anzi impedisce a qualsiasi singolo leader di trasformare la protesta in consenso politico. A livello politico, il voto ha espresso la volontà di porsi “contro qualcosa” e non “a favore di” un progetto costituzionale o di un nuovo futuro politico da realizzare. A livello sociale, è invece emersa la volontà di cambiare qualcosa o qualcuno: le regole della meccanica costituzionale per i favorevoli alla riforma, i politici che le hanno proposte per i contrari.
Un altro livello di lettura ci consente di distinguere che l’anima di molta parte dell’elettorato ha permesso di discutere i contenuti referendari all’interno di tanti dibattiti sul territorio e nei social network: al netto delle posizioni, entrambe legittime e motivate, essa esprime un volto maturo della democrazia italiana. In tanti si sono presentati con carta e penna per prendere appunti, fare domande, formarsi una propria opinione, mentre il clamore dei media dava conto soprattutto delle esasperazioni di una lunga e monotona campagna elettorale. L’assunzione consapevole di una scelta e delle sue conseguenze, fatto un bilancio tra beni e mali possibili, è ciò che ha motivato molti italiani a partecipare. Nemmeno l’oligopolio in cui la classe politica si è chiusa negli ultimi 20 anni è riuscito a smorzare il desiderio di conoscere e di approfondire. Tutto questo grazie anche al mondo cattolico, che è finalmente ritornato a dibattere, attraverso numerosi confronti pubblici organizzati nelle diocesi, per approfondire le ragioni del merito della riforma.
Di contro, però, l’altra parte dell’elettorato ha colpito come un fulmine il presidente Renzi, che solo tre anni fa era riuscito a conquistare un consenso trasversale. Così, come è stato scritto, “il rottamatore finisce, dopo soli mille giorni di governo, rottamato”.
Come per il voto al Pd nelle amministrative della primavera scorsa, il fronte del Sì ha perso nelle aree periferiche sia sociali sia geografiche e tra le fasce sociali più deboli della popolazione. Il principale dato politico è stato sottolineato dalle ricerche dell’Istituto Cattaneo, secondo cui il presidente Renzi è stato punito “dal ceto medio impoverito” dalla crisi . Sono le grandi città del Centro-Nord ad avere scelto il Sì, che ha vinto a Milano, Bologna, Firenze, mentre il «No» ha raggiunto il record a Palermo con il 72,3%, e quasi il 70% a Napoli e a Bari. È significativo un altro dato: nei 100 comuni con la percentuale più alta di disoccupati ha vinto il No con il 65,8%; nei 100 comuni con la più bassa percentuale di disoccupazione ha prevalso il Sì con il 59%.
C’è poi una seconda questione: ha votato No l’81% della fascia di età tra i 18 e i 34 anni; tra i 35 e i 54 anni il No si è assestato al 67%, mentre il Sì è prevalso, con il 53% dei consensi, nella fascia di età oltre i 55 anni. Tra i giovani digital-democratici, l’identikit dell’elettore del No è soprattutto una donna, mediamente colta, con un lavoro precario e non impegnata direttamente in politica. A loro è mancato un “perché” condiviso che diventasse un orizzonte e un nuovo sogno politico.