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Mps, Unicredit, Popolare di Vicenza. Tutti i dossier bancari nel limbo post Renzi

Mps

Il governatore della Banca di Francia François Villeroy de Galhau invita a non fare paragoni con la Brexit. Eppure il dilemma che rimbalza sui mercati internazionali è sempre lo stesso: “Quitaly or not Quitaly”? Comincia l’inevitabile percorso dell’Italia fuori dall’euro e, forse, dall’Unione europea? Finora non abbiamo visto nulla di simile al novembre 2011, però le conseguenze economiche del No dipendono dalla sua lettura politica, non tanto dall’altalena delle quotazioni in borsa.

“Renzi ha perso, ma non ha vinto l’Accozzaglia”: Marco Damilano sull’Espresso fotografa bene la situazione; invece che la nascita della Terza Repubblica il referendum porta con sé l’Anno zero della Repubblica, senza governo, senza una legge elettorale coerente con la quale andare alle elezioni, con le vecchie istituzioni come il Senato salvate da un voto che nasce dalla protesta contro quelle istituzioni, “cerniera spaccata tra società e politica”, ha scritto Giuseppe De Rita.

Questo è oggi lo stato dell’arte con i vincitori che non sanno come sfruttare il loro successo e il perdente che non ha ancora annunciato se e come continuerà la sua battaglia riformatrice. Mentre sulla scena i partiti appaiono tutti personaggi in cerca d’autore: il Pd spaccato e forse alla vigilia della sua rottamazione, Forza Italia piccola e divisa sotto la tutela di un Berlusconi tornato a calcare le tavole ma senza un copione da recitare. La Lega di Salvini che all’insegna della sovranità grida viva Putin, viva Le Pen, viva Trump, e il Movimento 5 Stelle voglioso di conquistare il potere che scalda una macchina senza pilota. In questa situazione sarà davvero difficile per Sergio Mattarella trovare una soluzione in grado di tappare i buchi.

La voragine più grande e immediata riguarda le banche. Il piano per l’aumento di capitale da 5 miliardi del Monte dei Paschi guidato da Marco Morelli (nella foto) non regge. La Bce potrebbe concedere più tempo, tuttavia non servirebbe a molto. Dunque, si arriverà al salvataggio pubblico? Il paradosso è che richiede il coinvolgimento di tutti gli obbligazionisti, l’inganno estremo per i piccoli risparmiatori i quali, obnubilati dalla propaganda, hanno votato contro Renzi e contro il bail-in, per non pagare i costi della mala gestio, spalmandoli su tutti i contribuenti. Si dice che verranno rimborsati, ma da chi? Dagli amministratori di Mps, dal fondo interbancario o da tutti noi? E perché mai dovremmo pagare per il “sistema Siena”? Non c’è solo Mps: in lista d’attesa ci sono già Carige, la Popolare di Vicenza, Veneto banca e soprattutto Unicredit che ha bisogno di ben 13 miliardi.

Le banche sono state la vera dannazione di Renzi. Non c’è dubbio che il suo governo non ha saputo come gestire la crisi: prima l’ha sottovalutata, poi non l’ha capita, ha cercato di prendere tempo, ha preso sottogamba la portata del bail-in, mentre avrebbe dovuto battersi fino in fondo per un’applicazione flessibile, non ha messo in campo un vero e proprio programma per accompagnare una ristrutturazione del sistema che è solo agli inizi e la cui portata non è ancora emersa del tutto.

Ora ci si illude che la piena del No porti a salvataggi a catena: ammesso che ci siano risorse e si possa dare un calcio nel sedere alla commissione Ue e alla Bce di Draghi, non è questa la soluzione per rendere le banche italiane più efficienti, quindi più solide.

Il revival neostatalista ripropone una catena di interventi dello Stato, dall’Alitalia all’Ilva (gli acquirenti potenziali ammesso che ci siano aspettano di sapere quanto paga Pantalone, in un modo o nell’altro). Questo è il rischio più grave, non tanto lo spread che pure è destinato a peggiorare, ma a differenza dal 2011 oggi è sotto l’ombrello della Bce. Quanto alle borse, in piazza Affari se togliamo i titoli bancari e assicurativi resta davvero ben poco.

Un nuovo governo, per quanto elettorale, non potrà rinviare la bomba bancaria a dopo il voto, tuttavia nessun gabinetto a termine avrà la forza politica, i quattrini e il consenso per una soluzione che duti e che funzioni. Siamo in pieno circolo vizioso.

Lo stesso vale per la politica fiscale. La legge di bilancio non è stata ancora approvata. Siamo sicuri che filerà liscia al Senato? Tutto fa pensare che l’assalto alla diligenza diventi più irresistibile che mai. Ma anche se si riuscirà ad arrivare senza danni al Natale, è chiaro che un “governicchio” non potrà gestire le misure previste dalla finanziaria. Se ci saranno poi le elezioni anticipate, i parametri faticosamente ritagliati da Pier Carlo Padoan salteranno con un rimbalzo micidiale sul debito pubblico.

Per evitare che ciò avvenga, potrebbe essere il ministro dell’Economia a prendere in mano le redini del governo, garante verso le istituzioni europee e guardiano dei conti. Due funzioni fondamentali per le quali Pier Carlo Padoan è tagliato più di altri. Ma Europa e rigore sono proprio gli ingredienti giusti per alimentare una campagna ancor più micidiale contro i diktat degli eurocrati, contro l’austerità, contro la moneta unica. Intendiamoci, gli italiani del No non sono tutti pronti ad abbandonare l’euro e la Ue. Ma spesso la forza delle cose supera le intenzioni degli individui. E proprio il referendum lo ha dimostrato. Quixit o no, il paese dovrà scegliere non tanto con chi stare, ma dove stare. E nessuno potrà dire abbiamo scherzato col fuoco e non ci siamo scottati.

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