Nel Novecento tutte le esperienze totalitarie hanno avuto come proprio fulcro il “Partito”, un partito custode dell’ideologia e monopolista delle istituzioni. Inoltre, tutte quelle esperienze si sono rette su un culto della personalità assoluto, che saldava gregarismo delle masse e megalomania dei dittatori. Solo dopo il 1945 i popoli occidentali “accetteranno un’idea di democrazia vicina a quella elaborata da Joseph Schumpeter” (Marco Revelli, “Finale di partito“, Einaudi, 2013). Secondo il grande economista austriaco, il metodo democratico era “lo strumento istituzionale per giungere a decisioni politiche, in base al quale singoli individui ottengono il potere di decidere attraverso una competizione che ha per oggetto il voto popolare” (“Capitalismo, socialismo e democrazia“, Etas, 2001).
Perché allora nel passaggio di secolo, in forma prima silenziosa, poi via via sempre più eclatante, la sfiducia nei partiti è esplosa così clamorosamente? Almeno in Italia, la risposta che forse ha ricevuto più credito è anche la più semplice: la “casta” è diventata insopportabile perché i leader sono peggiorati. Come si suol dire, “non ci sono più i capi di una volta”. Le élite non sono più, come scriveva Vilfredo Pareto, “classi elette” composte da coloro che eccellono nei vari campi, compreso quello dell’arte di governare. Nell’analisi di Roberto Michels era scontato che i capi fossero migliori della massa. Soprattutto “nei partiti del proletariato -scriveva- in fatto di cultura, i duci sono di gran lunga superiori all’esercito”. Come si legge nella “Sociologia del partito politico” (1911), “la gratitudine delle masse verso personalità che in nome loro parlano e scrivono, che si sono create la fama di difensori e consiglieri del popolo, […] è naturale e spesso trascende in vera e propria tendenza delle masse alla venerazione dei capi” (il Mulino, 1966).
Le leadership di partito attuali, invece, sono ampiamente screditate, tanto che l’unica rivendicazione unanime che si leva “dal basso” ogni qualvolta si parla di riforma elettorale, è quella di sottrarre alle segreterie di partito il potere di decidere le candidature. La folla di funzionari e di quadri intermedi che occupa gli apparati, così come la moltitudine dei parlamentari, sono “spesso considerate come esempio di impreparazione, di cattiva conoscenza dei problemi, di inefficienza e parassitismo” (Revelli). Sono inoltre bollate come venali e affaristiche, marcate dal vizio del privilegio e da uno spirito corporativo, oltre che da un diffuso servilismo. “Non c’è persona più fedele del buono a nulla, perché non ha alternative”, ha detto in una lezione alla prima Leopolda fiorentina l’economista Luigi Zingales parlando della “peggiocrazia” dilagante nei partiti italiani.
È “una spiegazione, questa, che tuttavia spiega poco”(Revelli). Perché occorrerebbe capire per quale ragione oggi i meccanismi della democrazia rappresentativa, anziché i migliori, selezionino i peggiori. Su questo nodo esiste una letteratura sterminata, che attribuisce alle trasformazioni di sistema -consumatesi nei decenni terminali del “secolo breve”- le ragioni del degrado della rappresentanza politica nei regimi democratici. In un suo fondamentale saggio, “Il declino dell’uomo pubblico” (1974), Richard Sennet poneva all’origine di tale degrado una vera e propria “apocalisse culturale” (Bruno Mondadori, 2006).
Una apocalisse culturale segnata dall’emergere di un Io ipertrofico, che tende a proiettare sullo spazio pubblico la propria soggettività narcisistica: sentimenti, emozioni, pulsioni, desideri di successo e di visibilità. In un quadro istituzionale tendenzialmente delegittimato, in cui si sgretolano le basi materiali della fiducia sociale, non sorprende quindi che nel nostro Paese sia riemersa una “tentazione populista”, anche nelle forme inedite della “democrazia digitale”. Al di fuori delle retoriche pan-tecnologiche, è infatti evidente che le procedure della decisione telematica tendono a cancellare la fase riflessiva della discussione e dell’analisi dei problemi, per promuovere invece i fattori emotivi, le sensazioni immediate, le pulsioni istintive. E anche questo è un paradosso del nostro tempo: che a una sicuramente più vasta cultura di massa finisca per corrispondere una contestuale contrazione del momento dell’esame e della deliberazione argomentata, compresso fino alla dimensione puntiforme del fatidico clic.