Oggi si vota per cambiare numerosi articoli della Costituzione, ammorbidire i check-and-balances che i Padri Costituenti, uscendo di un ventennio autoritario, consideravano essenziali, ridurre (molto poco) i costi della politica e cambiare gli equilibri tra Stato e Regioni. Ciascuno di noi ha avuto ampia possibilità di riflettere se votare Sì o votare No. Anche se il voto è segreto, molti hanno dichiarato pubblicamente per quale “fronte” voteranno. Grazie alla cortesia offertami da Formiche.net ho espresso per chi voterò e ne ho dato le mie motivazioni.
In queste ultime settimane, sono state presentate diverse proiezioni di cosa sarebbe successo sotto il profilo economico in caso di vittoria di uno dei due schieramenti. Sono state previsioni specialmente di breve periodo. Il fronte del Sì ha più volte manifestato che, in caso di vittoria degli avversari, l’Italia sarebbe stata colpita da una grave crisi di sfiducia dai mercati internazionali. In tempi non sospetti, abbiamo scritto che questi timori erano fortemente esagerati. Lo dice sia la storia economica sia il recente della Brexit, un evento molto più traumatico per l’Unione Europea (UE) che, almeno nel breve periodo, non ha provocato i disastri paventati. Il ‘fronte del No’ ha sottolineato paure analoghe in caso di vittoria del ‘Si’: il Governo sarebbe stato avviluppato da ricorsi di ogni genere tribunali ed alla Corte Costituzionale e di manifestazioni di piazza. Ciò gli avrebbe impedito di effettuare una efficace politica che – aggiungono – manca da due anni e mezzo, ossia da quando Esecutivo e Parlamento sono avviluppati nelle riforma istituzionali.
Ambedue gli scenari appaiono, alla luce degli ultimi dati, esagerati. Nel brevissimo periodo, l’andamento della Borsa (escludendo il settore bancario) e dello spread non ha mostrato grandi fibrillazioni. Non tanto perché i maggiori investitori hanno avute soffiate (dai loro sondaggisti) sui risultati del referendum ma in quanto i maggiori istituti di previsioni econometriche (i venti del gruppo del consensus) danno calma piatta (ed anzi una leggera riduzione di passo) per l’Italia del 2017. Quindi, moderiamo le prospettiva (sia un senso che in un altro) quando votiamo. In ogni caso, qualche che sarà l’esito e quale che sarà l’esecutivo, sarà necessaria un’efficace politica economica per il Paese in materia di consolidamento della finanzia pubblica, di riduzione del peso del debito, di innovazione industriale, di mercato del lavoro, di liberalizzazione e di tante materie che riescano a risolvere il male oscuro che da circa vent’anni affligge il Paese: la bassa produttività.
In caso di vittoria del fronte del No, ci saranno nel breve termine temi che distrarranno, ancora una volta, Governo e Parlamento dall’economia: la decisioni se il Governo Renzi (magari integrato o modificato) avrà l’autorevolezza per restare in carica, il dibattito sulla nuova legge elettorale, il riassetto di istituzioni depotenziate (in attesa di essere soppresse), l’avvio di una nuova riforma più organica e soprattutto più consensuale.
In caso di vittoria del ‘fronte del Si’ la situazione non sarà molto più promettente (almeno per i prossimi cinque anni, secondo le analisi del Premio Nobel John Douglas North). In una prima fase, Governo e Parlamento saranno impegnati a mettere a punto i numerosi strumenti normativi e per diversi anni tutta la società italiana ad apprendere le nuove regole.
La storia economica ci insegna che ciò non è avvenuto solo in caso di riforme molto consensuali. Mentre la stessa campagna referendaria mostra che quelle proposte sono molto divisive.