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Iuvenescit ecclesia. Carisma e istituzione nella Chiesa del terzo millennio

Papa Giovanni Paolo muro

L’anno prossimo saranno vent’anni (era il 30 maggio del 1998) dallo storico incontro dei movimenti ecclesiali e nuove comunità con l’allora pontefice S.Giovanni Paolo II in piazza S.Pietro. Un incontro che non a caso si celebrò la vigilia di Pentecoste, a voler significare anche liturgicamente ciò che Karol Wojtyla avrebbe poi sottolineato, ovvero che quelle realtà eccelsiali erano una “risposta provvidenziale” suscitata dallo Spirito Santo in rapporto all’esigenza di evangelizzare un mondo ormai secolarizzato con forme nuove di annuncio, in linea con il programma di quella “nuova evengelizzazione” che lo stesso Wojtyla aveva lanciato nel 1985 con l’intento di dare attuazione al Concilio Vaticano II.

Chiunque volesse provare a fare un bilancio di questo ventennio o quasi, e chiedersi qual è oggi il giudizio della chiesa sui carismi e, più in particolare, sul rapporto tra questi e l’istituzione gerarchica, potrebbe trarre qualche utile indicazione dalla lettera “Iuvenescit Ecclesia”, pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede lo scorso 15 maggio, dopo essere stata approvata da papa Francesco un paio di mesi prima. La lettera, indirizzata a tutti i vescovi della chiesa cattolica, ha come oggetto “la relazione tra i doni gerarchici e carismatici per la vita e la missione della Chiesa”. Nella conferenza stampa di presentazione del documento il Prefetto della Congregazione, card. Müller, evidenziò come il titolo stesso della lettera, “ci parla di questa capacità che lo Spirito Santo ha di far ringiovanire la Chiesa e, insieme ad essa, tutte le persone, le relazioni e i luoghi che accettano di accoglierlo”. Per poi aggiungere subito dopo, citando la costituzione Lumen Gentium, che si deve al Concilio Vaticano II la riproposzione di “questa bella verità: “Lo Spirito introduce la Chiesa nella pienezza della verità (cfr. Gv 16,13), la unifica nella comunione e nel ministero, la provvede e dirige con diversi doni gerarchici e carismatici, la abbellisce dei suoi frutti (cfr. Ef 4,11-12; 1 Cor 12,4; Gal 5,22). Con la forza del Vangelo la fa ringiovanire, continuamente la rinnova e la conduce alla perfetta unione col suo Sposo.

Il riferimento al Vaticano II non è casuale, ed è anzi l’orizzonte teologico e pastorale entro cui si collocano le considerazioni del documento nella misura in cui, è ancora il card. Müller a parlare, il “sorgere di tante nuove aggregazioni, associazioni e movimenti ecclesiali, così come di tanti nuovi Istituti di vita consacrata, dopo il Concilio Vaticano II, ci ha fatto riscoprire concretamente la portata ecclesiale di questa affermazione conciliare”. Se, infatti, la chiesa ha sempre visto sorgere nuovi carismi nel corso dei secoli, è altrettanto vero che “nella stagione post-conciliare abbiamo assistito ad un fiorire inatteso e dirompente di tante di queste realtà, favorendo anche il diffondersi di una riflessione sui carismi, come mai vi è stata prima nella storia della Chiesa”. Questo è un primo punto importante: senza il Vaticano II non vi sarebbe stata quella fioritura di carismi che, invece, si è verificata. Non solo. Si può anche affermare che tali movimenti e nuove comunità sono nati proprio in vista del e per dare attuazione al Vaticano II (quello vero, s’intende). Che resta un evento straordinario che ha suscitato un’azione di rinnovamento nella, non contro né oltre la tradizione – come sottolineò Benedetto XVI nel memorabile discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005 – in parte recependo le istanze del rinnovamento biblico, liturgico e teologico degli anni precedenti, in parte suscitandone di nuove, il tutto cristallizzato nei documenti finali (che andrebbero riletti magari con un occhio attento più a quello che dicono che a quello si vorrebbe che dicessero).

Grazie al Concilio è stata rimessa al centro della vita dei fedeli la Parola di Dio (Dei Verbum); è stata varata una riforma liturgica (Sacrosanctum concilium) dove la Messa è non è più un assistere passivamente ad un rito, ma partecipazione attiva, personale e allo stesso tempo comunitaria al Mistero Pasquale di Cristo; è stata riproposta, tornando alle fonti, un’ecclesiologia (Lumen Gentium) dove la chiesa è Corpo di Cristo e popolo di Dio, all’interno della quale ciascun fedele, in virtù del battesimo, partecipa all’unico sacerdozio di Cristo, col risultato di de-sacralizzare la figura del prete – cosa che ancora oggi, e non per pochi, è il vero problema – e di affermare al contempo il ruolo del laicato non più braccio secolare del clero ma protagonista attivo nella vita della chiesa. Una riforma questa, che pur non avendo tolto nulla al sacerdozio ministeriale che era e resta imprescindibile, una buona fetta del clero (e non solo) fa ancora fatica a digerire fermo com’è ad una visione del sacerdozio più come potere che come servizio. Non per nulla il refrain ricorrente – proprio a proposito delle succitate realtà ecclesiali – è che sì, d’accordo, i laici hanno avuto un ruolo importante nel post-concilio, ma ora il loro compito si è esaurito, ed è tempo che i preti riprendano in mano il timone della barca. Come se, appunto, fosse tutta e soltanto una questione di potere. Tre riforme – biblica, liturgica, ecclesiologica – che non solo non hanno scalfito di una virgola la Tradizione (altro sono “le” tradizioni, quelle sì suscettibili di cambiamenti), ma anzi hanno posto le premesse perché il cristianesimo entrasse nella vita concreta, umana ed esistenziale delle persone. Ma al di là delle resistenze e dei pregiudizi che tuttora permangono in alcuni ambiti eccelsiali nei confronti dei movimenti laicali, è un dato di fatto che grazie ai carismi ecclesiali nati in quegli anni decine di migliaia di uomini e donne hanno potuto riscoprire la fede, e altrettanti hanno potuto incontrare Cristo per la prima volta. La stessa lettera “Iuvenescit Eccelsia” evidenzia come le aggregazioni di fedeli, i movimenti ecclesiali e le nuove comunità sono “capaci di suscitare particolare attrattiva per il Vangelo” e di proporre “forme rinnovate della sequela di Cristo in cui approfondire la communio cum Deo e la communio fidelium portando nei nuovi contesti sociali il fascino dell’incontro con il Signore Gesù e la bellezza dell’esistenza cristiana vissuta nella sua integralità. In estrema sintesi, essi rappresentano la risposta della Provvidenza al bisogno di “comunicare in modo pervasivo il Vangelo in tutto il mondo, considerando i grandi processi di cambiamento in atto a livello planetario”.

Sbaglierebbe tuttavia chi leggesse la “Iuvenescit Ecclesia” in modo parziale. Non si tratta di esaltare il carisma a discapito dell’istituzione o viceversa quanto piuttosto, come ha precisato il card. Müller, di “favorire – attraverso una approfondita consapevolezza degli elementi essenziali relativi a doni gerarchici e carismatici, e al di là di ogni sterile contrapposizione o giustapposizione – una loro ordinata comunione, relazione e sinergia, in vista di un rinnovato slancio missionario ecclesiale”. In tale ottica risulta decisivo per una corretta comprensione del delicato rapporto tra doni gerarchici e doni carismatici, il cosiddetto principio di “coessenzialità” coniato da S.Giovanni Paolo II, secondo cui non vi è “contrasto o contrapposizione tra la dimensione istituzionale e la dimensione carismatica, di cui i Movimenti sono un’espressione significativa. Ambedue sono co-essenziali alla costituzione divina della Chiesa fondata da Gesù, perché concorrono insieme a rendere presente il mistero di Cristo e la sua opera salvifica nel mondo”. Un principio ribadito da Benedetto XVI – che anzi specificherà che “nella Chiesa anche le istituzioni essenziali sono carismatiche e d’altra parte i carismi devono in un modo o nell’altro istituzionalizzarsi per avere coerenza e continuità” – e che nel magistero di Francesco assume il siginificato di “armonia” tra i diversi doni suscitati dall’azione divina. Nessuna contrapposzione nè giustapposizione, dunque, ma coessenzialità: carisma e istituzione gerarchica sono due facce di un’unica medaglia che è la natura stessa della chiesa. Ma come riconoscere se un carisma è autentico o meno? Quali i criteri per discernere se dietro una data realtà c’è effettivamente l’azione dello Spirito Santo?

Ribadito che è compito dell’autorità ecclesiatica verificare l’autenticità del carisma, la Congregazione richiama otto criteri per esercitare tale discernimento: a) primato della vocazione di ogni cristiano alla santità, ovvero una realtà ecclesiale è espressione di un carisma autentico se è via e strumento di santità; b) impegno alla diffusione missionaria del Vangelo: non c’è vero carisma senza uno slancio missionario; c) confessione della fede cattolica, il che significa essere luogo di formazione e di educazione alla fede in obbedienza al Magistero della Chiesa; d) testimonianza di una comunione fattiva con tutta la Chiesa: un carisma autentico deve essere in comunione col Papa e con il vescovo locale, essendo disponibile ad accogliere insegnamenti e orientamenti pastorali; e) riconoscimento e stima della reciproca complementarietà di altre componenti carismatiche nella Chiesa, che si traduce in una reciproca collaborazione con le altre realtà ecclesiali; f) accettazione dei momenti di prova nel discernimento dei carismi, ovvero saper accettare con umiltà contrattempi ed eventuali tensioni; g) presenza di frutti spirituali: un vero carisma produce in chi vi partecipa carità, gioia, pace, umanità, ecc.; h) dimensione sociale dell’evangelizzazione: significa riconoscere che il Vangelo implica necessariamente vita comunitaria e impegno con gli altri.

Una volta riconosciuta l’autenticità del carisma, si pone il problema di come effettivamente convivere, cioè della giusta relazione che deve instaurarsi tra un’aggregazione carismatica e l’istituzione gerarchica. Anche qui, la “Iuvenescit ecclesia” sottolinea la necessità di un vicendevole riferimento: “…le diverse aggregazioni riconoscano l’autorità dei pastori nella Chiesa come realtà interna alla propria vita cristiana, desiderando sinceramente di esserne riconosciuti, accolti ed eventualmente purificati, mettendosi al servizio della missione ecclesiale. Dall’altra parte, coloro che sono insigniti dei doni gerarchici, effettuando il discernimento e l’accompagnamento dei carismi, devono cordialmente accogliere ciò che lo Spirito suscita all’interno della comunione ecclesiale, tenendone conto nell’azione pastorale e valorizzando il loro contributo come un’autentica risorsa per il bene di tutti”. Questo è sicuramente uno dei passaggi decisivi della lettera, poichè afferma chiaramente che una volta effettuato il discernimento, una volta riconosciute la bontà e l’autenticità del carisma e, ovviamente, una volta che la data realtà ecclesiale abbia riconosciuto l’autorità dei pastori, questi devono accogliere di cuore (“cordialmente”) i carismi valorizzandone il loro contributo nell’azione pastorale.

Ci sarebbe ancora molto da dire sulla “Iuvenescit ecclesia”, tanto il documento è denso e ricco di spunti; ed è anzi auspicabile che in ambito ecclesiale (e non solo) divenga oggetto di ulteriori approfondimenti. Ma i brevi cenni sin qui esposti credo siano più che sufficienti per far apprezzare il valore e l’importanza che essa riveste per la riflessione teologica e pastorale presente e, soprattutto, futura. Il cambio di rotta inaugurato dal Concilio Vaticano II è stato epocale: dopo secoli e secoli di sostanziale scettismo nei confronti di ogni pretesa carismatica, a sua volta figlio di ben precisi fattori storici, la riscoperta dell’eclesiologia di comunione operata dal Concilio ha, tra le altre cose, rimesso nella giusta prospettiva il rapporto tra carisma e istituzione. “L’ecclesiologia del Concilio Vaticano II – ha commentato il card. Oullet nella già citata conferenza stampa – ha riconosciuto alla pari i doni gerarchici e carismatici nella Chiesa, aprendo così una stagione missionaria nuova, fondata sulla testimonianza di comunione e sull’apertura al dialogo ecumenico e interreligioso. Nonostante le tensioni inerenti a questa nuova integrazione, i frutti sono di gran lunga superiori alle difficoltà; tra di essi spicca il riconoscimento irreversibile della rilevanza ecclesiale dei carismi e, di conseguenza, la promozione di nuovi rapporti tra soggetti di doni gerarchici e carismatici per la vita e la missione della Chiesa.” Un’affermazione questa che – se letta alla luce di quanto è successo, nella chiesa e in più in generale nel mondo occidentale in quest’ultimo mezzo secolo, ovvero un radicale processo di secolarizzazione e di scristianizzazione della società – è in grado di rendere più nitido il disegno provvidenziale che all’epoca del Concilio si poteva solo intravvedere. Si capisce meglio insomma che se nel post Concilio vi è stata una fioritura impressionante di carismi, ciò non è accaduto a caso, ma per un motivo preciso. E il motivo risiede in quella cesura storica che un professore di teologia di nome Joseph Ratzinger aveva profeticamente intravisto quando era ancora agli inizi, ovvero sul finire degli anni ’60.

I cambiamenti epocali di quel periodo – contestazione studentesca, rivoluzione sessuale e dei costumi, ingresso massiccio dei mass media nella vita quotidiana, lotte politiche e di emancipazione e, non ultima, una lettura del Vaticano II da parte di certi ambienti ecclesiali che ha di fatto favorito un processo di “mondanizzazione” della chiesa spacciata per modernizzazione, ecc. – avrebbero comportato per la chiesa l’inizio di un tempo di crisi e di prova, che da un lato ne avrebbe drasticamente ridimensionato l’influenza, il prestigio e la presenza, anche numerica, nella società fino a diventare, come in effetti è avvenuto, minoranza; dall’altro, e allo stesso tempo, la progressiva affermazione di una società compiutamente post-cristiana avrebbe rappresentato l’opportunità di riscoprire l’essenziale: “Dalla crisi odierna – disse il futuro pontefice il 25 dicembre del 1969 nell’ultimo di cinque discorsi radiofonici –  emergerà una Chiesa che avrà perso molto…dovrà ripartire più o meno dagli inizi… Ripartirà da piccoli gruppi, da movimenti e da una minoranza che rimetterà la fede e la preghiera al centro dell’esperienza e sperimenterà di nuovo i sacramenti come servizio divino e non come un problema di struttura liturgica…io sono anche certissimo di ciò che rimarrà alla fine: non la Chiesa del culto politico…la Chiesa conoscerà una nuova fioritura e apparirà come la casa dell’uomo, dove trovare vita e speranza oltre la morte”.

Ciò che Ratzinger aveva intravisto con estrema lucidità, si è puntualmente verificato. E sarebbe oltremodo miope, di fronte ad una crisi di fede che ha raggiunto ormai proporzioni drammatiche in Europa e non solo, non rendersi conto di come oggi più che mai i carismi ecclesiali rivestono un ruolo decisivo per la sopravvivenza stessa della chiesa. Che sarà sempre più una chiesa messa ai margini ma proprio per questo destinata a ripartire, come diceva Ratzinger, “da piccoli gruppi, da movimenti e da una minoranza”, ovvero da un “resto” che avrà la missione di essere di nuovo “lumen gentium” in un mondo che vive etsi Deus non daretur. Come ha intuito Rod Dreher rilanciando la cosiddetta “Opzione Benedetto” – non a caso negli Usa al centro del dibattito – in un mondo che si è allontanato da Dio e dove anzi sta avanzando un’antropologia radicalmente anti-cristiana, non vi è altra strada che tornare all’essenziale, cioè riscoprire e vivere in pienezza una la fede autentica, da attuarsi secondo forme di vita comunitaria. D’altra parte, che la riscoperta della fede sia (o dovrebbe essere) “la” questione per eccellenza, è oltremodo comprovato dalla troppo spesso dimenticata domanda di Gesù: “Quando il Figlio dell’Uomo tornerà, troverà ancora la fede sulla terra?” Non una società più giusta, un mondo pacificato e solidale, l’umanità finalmente emancipata dalla sofferenza e dal dolore, un eco-sistema più salubre, ecc. Ma, appunto, la fede. E da qui che bisogna ripartire.

Tornerà il resto, il resto di Giacobbe,

al Dio forte. Poichè anche se il tuo popolo,

o Israele, fosse come la sabbia

del mare, solo un resto ritornerà

(Isaia 10, 21-22a)

 

 


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