Due osservazioni preliminari sono indispensabili per orientarsi rispetto al nuovo scontro che si è acceso in questi giorni fra l’Italia e la Commissione Europea a proposito del Patto di Stabilità e del nostro Bilancio dello Stato per il 2107.
La prima osservazione è che il Governo non può sorprendersi per l’intenzione della Commissione di aprire una procedura contro l’Italia per violazione delle regole del Patto di Stabilità. Né tantomeno può fingere di esserlo. Fin dall’ottobre scorso, quando fu presentata in Parlamento la legge di bilancio, si sapeva che quelle cifre non avrebbero superato il vaglio della Commissione. Era stato detto in tutti i modi, da Moscovici e da altri Commissari, che solo pochi mesi prima il Governo italiano si era impegnato a cifre di deficit molto più basse e dunque non poteva rimangiarsi (ancora una volta) gli impegni. Era stato anche precisato che, con il bilancio 2016, l’Italia aveva esaurito i margini di flessibilità previsti nel Patto. Insomma, presentando quelle cifre il verdetto, era già scritto.
La seconda osservazione preliminare è che il Governo probabilmente sapeva tutto questo, ma aveva chiesto (e ottenuto) che Commissione gli usasse la “cortesia” di comunicare il giudizio solo dopo il referendum del 4 dicembre. Poiché è stato così, non solo non vi è sorpresa, ma è meglio stendere un velo pietoso su questo modo di procedere sia di Roma che di Bruxelles.
Nel merito. Di fatto, il Governo non nega la violazione del Patto di Stabilità: la giustifica con le spese del terremoto. Ma se la violazione esiste, la Commissione Europea, che è “il custode dei Trattati”, è chiamata a fare rispettare le regole del Patto. Possiamo considerare sbagliate quelle regole (ma finora il Governo non ha mai sottoposto agli altri paesi membri dell’Unione Europea delle proposte organiche di riscrittura delle regole). E possiamo anche ritenere che in fondo si tratti di una violazione degli impegni quantitativamente minuscola (dello 0,2-0,4% in rapporto al reddito), ma nulla autorizza la Commissione a non procedere se la deviazione è “modica”. Se vi è una deviazione, Bruxelles non può che applicare le regole. Oltretutto il dubbio degli uffici di Bruxelles è che in realtà tutta l’impostazione italiana di finanza pubblica sia viziata da un eccesso di ottimismo sulla ripresa e da una sottovalutazione dei disavanzi probabili. In questo, non hanno aiutato, nei mesi scorsi e non aiutano in questi giorni, le dichiarazioni polemiche di esponenti politici e di governo contro il burocratismo della Commissione. Sono dichiarazioni largamente ingiuste nel merito (perché semmai sono sbagliate le regole e non chi le applica) che rischiano di spingere la Commissione in un angolo e obbligarla a essere ancora più rigida per non andare incontro al rilievo opposto che già le viene mosso a Berlino e dintorni, di essere troppo arrendevole verso le violazioni italiane delle regole.
In realtà, in questi anni il Governo italiano ha fatto un duplice errore di valutazione. Da un lato ha pensato che, limitando ogni anno la violazione a qualche decimale di punto, la Commissione avrebbe potuto transigere. Ma dall’altro – ed è l’errore sostanziale – si è illuso che, con quelle modiche violazioni, avrebbe potuto fare una politica economica efficace nel fare ripartire l’economia. L’osservazione che così facendo non sarebbe andato da nessuna parte gli è stata mossa ripetutamente e non è stata mai ascoltata. Oggi il Governo è rimasto con un pugno di mosche in mano, perché stagnazione e disoccupazione rimangono a livelli intollerabili per un paese civile, mentre continua a crescere il rapporto fra il debito pubblico e il PIL, che prima o poi farà scoppiare un problema davvero serio di finanza pubblica.
Questo è il punto centrale della questione sul quale ho richiamato l’attenzione molte volte in questi anni. Riformulo ancora una volta il problema. La decisione se rispettare o meno le regole europee dipende dall’analisi che viene fatta della condizione economica italiana e dei modi per accelerare la ripresa. Se si ritiene che la ripresa dipenda da una più estesa applicazione delle regole della concorrenza e che il deficit pubblico non rappresenti uno strumento efficace per promuovere la ripresa, allora tanto vale accelerare al massimo la riduzione del deficit e cominciare a fare scendere il debito per creare condizioni finanziarie più favorevoli all’arrivo di capitali stranieri ed all’impegno dei capitali nazionali in investimenti privati in Italia.
Se invece si considera – come secondo me si dovrebbe concludere alla luce dell’esperienza di questi anni – illusoria questa prospettiva e si pensa che, data la gravità della crisi attraversata dall’Europa e dalla’Italia, per ripartire davvero l’Italia abbia bisogno di un forte stimolo della finanza pubblica, sotto forma o di minori entrare o di maggiori spese di investimento o di ambedue, allora bisogna essere pronti ad allontanarsi dalle richieste europee, non di qualche decimale, ma di qualche punto e non per un anno, ma per più anni. La violazione delle regole sarebbe la stessa che ci verrà contestata oggi, ma avremmo una politica che potrebbe dare all’Italia una prospettiva diversa e migliore.
Queste erano e restano le alternative. Restare a mezza strada, come si è restati in tutti questi anni, ha avuto il duplice esito negativo di non aiutare l’economia italiana a ripartire e lasciare che il debito pubblico continuasse a deteriorarsi.
Il vecchio Governo su questo problema ha sbagliato molto e l’esito economico è sotto gli occhi di tutti: una ripresa asfittica e un debito pubblico che tende a divenire asfissiante. Non c’è bisogno di perdere altro tempo, di aspettare le elezioni, immediate o successive, che esse siano. C’è un nuovo Governo. Il problema di politica economica italiana va riesaminato e reimpostato dalle fondamenta. Si prenda l’occasione dei rilievi di Bruxelles per aprire una riflessione vera ed essenziale. In fondo, questo Governo non è responsabile degli errori di impostazione compiuti in questi anni. Può correggerli e il Paese e probabilmente le istituzioni europei gliene sarebbero grati. E nelle prossime elezioni il primo elemento di orientamento per gli elettori sarà la situazione economica del Paese. Ma il tempo si fa sempre più stretto.
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