A giugno del 2015 i media outlet dello Stato islamico hanno fatto uscire il primo numero di “Kostantiniyye“, Costantinopoli, una rivista califfale che si occupa di Turchia. La pubblicazione online, in turco, riprende la forma della più nota e internazionale Dabiq: immagini ad alta definizione, testi e predicazioni, programmi, propaganda e interviste ai leader. Il titolo ha un valore evocativo, la conquista di Costantinopoli, tanto quanto quello della più recente “Rumiyah“, antico nome arabo con cui veniva chiamata Roma, simbolo per le visioni fanatiche dei baghdadisti del nemico crociato ultimo. Gli “editor” di Dabiq spiegarono che anche la scelta del nome del più conosciuto magazine del Califfato era legata a una profezia su una battaglia apocalittica che si svolgerà in un villaggio del nord siriano (Dabiq, appunto, sull’outskirt settentrionale di Aleppo, a pochi chilometri dal confine turco). Quella battaglia, evocata dal Profeta in un hadith, avrebbe dovuto aprire le porte per la conquista di Roma e Costantinopoli (al secolo Istanbul).
LA CAMPAGNA SCUDO
Sotto questo punto di vista le cose sul campo non vanno tanto bene per il Califfo. Dabiq è infatti una delle città che la formazione mista di forze speciali turche e ribelli siriani addestrati ha riconquistato con l’operazione Scudo dell’Eufrate, la missione militare che Ankara ha lanciato il 24 agosto per liberare aree appena oltre confine dall’invasione dello Stato islamico (e bloccare l’espansione dei curdi); tutto con il consenso russo. Dabiq si trova su una direttiva che da Killis, in Turchia, porta ad Al Bab, roccaforte dello Stato islamico da anni, che ora i turchi hanno messo nel mirino come target finale dell’operazione. Nonostante l’avanzata della Scudo si sia in parte arenata (ma sta già riprendendo grazie anche al supporto aereo russo), è del tutto probabile che la Turchia riesca a conquistare Al Bab, creando un cuneo di influenza in Siria: contemporaneamente la sconfitta sul campo dei soldati del Califfo sposterebbe ancora di più il fronte asimmetrico della guerra con Ankara, aprendo ad altri possibili attentati contro lo “Scudo della Croce”, come i baghdadisti hanno definiti la Turchia nel messaggio di rivendicazione per la strage di Istanbul.
LA RIVISTA E IL NETWORK
Kostantiniyye è arrivata alla sua settimana uscita ad agosto, dove nel numero c’era un lungo “pseudo-reportage” sull’attentato di Nizza (avvenuto il 14 luglio, quando un camion che si è lanciato sulla folla che festeggiava la ricorrenza della Presa della Bastiglia sul lungomare). Ma la rivista non è il solo appiglio propagandistico su cui lo Stato islamico può contare in Turchia. Per lungo tempo il governo, che aveva come obiettivo il rovesciamento del regime di Damasco, ha permesso il passaggio di rinforzi (uomini e armi) ai gruppi dell’opposizione siriana, tutta, senza troppe sofisticazioni sul radicalismo delle visioni – in questo, anche l’Isis non ancora Califfato e semplice gruppo combattente che dall’Iraq aveva travasato nel conflitto siriano, non è stato escluso dall’appoggio dei turchi, almeno nella fase iniziale e seppure in modo più modesto. In Turchia il network sfruttato dai ribelli è radicato, diffuso e ha incontrato un humus fertile.
IL TERRENO FERTILE PER IL RADICALISMO
Nel radicamento dell’Isis in Turchia giocano un poco lusinghiero ruolo sia le forze dell’ordine, accusate troppo spesso di aver taciuto davanti a episodi di radicalizzazione nei principali quartieri delle grandi città, ma soprattutto la Diyanet, l’Autorità per gli Affari Religiosi, la massima istituzione nel Paese, tradizionalmente sotto il controllo del governo e deputata all’amministrazione del culto. Da quando l’ex Gran Muftì, Ali Bardakoglu, legato agli ambienti laici dello Stato, ha cessato la sua funzione, il suo posto è stato preso da Mehemet Gormez, vicino al presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdogan, che ha dato un imprimatur completamente diverso alla Diyanet. Se sotto Bardakoglu c’era una netta divisione fra religione e stato e il Gran Muflì se ne guardava bene dal mettere il becco nella vita civile del Paese, sotto Gormez ha preso piede la tendenza opposta, con frequenti richiami alle buone abitudini che i musulmani dovrebbero tenere, che lo hanno fatto finire nell’occhio del ciclone più volte, soprattutto per i suoi commenti sugli aleviti, una confraternita di derivazione sciita contrapposta all’Islam ‘ufficiale’ sunnita, a lungo perseguitata nel Paese. Il Gran Muftì, che gode della fiducia delle autorità di Ankara, ha anche iniziato a operare un distacco graduale dal governo, dando sempre più autonomia alla Diyanet. Che però, con il passare del tempo, è stata bersagliata da accuse sempre più serie. Alcuni suoi dipendenti sono sospettati di avere aiutato militanti di Daesh (acronimo con cui il mondo islamico chiama l’Isis) se non addirittura di farne parte a loro volta. La dirigenza dell’Autorità è stata accusata di avere (volontariamente o meno) trascurato le denunce che arrivavano su episodi concreti di radicalizzazione di alcune moschee.