Come ho tentato di fare negli ultimi anni in questa rubrica, desidero celebrare la Giornata della Memoria con qualche noterella sulla storia dell’ebraismo in Italia (lascio a chi ha più titolo di me ricordare l’Olocausto). Questa volta ho scelto di parlare del ghetto di Roma.
Nasce da una decisione della Serenissima veneziana il primo “serraglio de’ giudei”, come allora veniva chiamato. Esso sorge nel 1516 a Cannaregio, in una minuscola isola della parrocchia di San Girolamo. L’isola aveva ospitato una fonderia di cannoni e campane, chiamata “getto” (dalla gettata di metallo fuso). Nella pronuncia degli ebrei ashkenaziti di origine tedesca, priva di vocali dolci, diventerà “ghetto”. Quarant’anni dopo, nel luglio del 1555, con la bolla “Cum nimis absurdum” Papa Paolo IV (1555-1559) ordinava la creazione di un ghetto anche a Roma. Racchiuso nel rione Sant’Angelo, già abitato da quasi tutti gli ebrei romani, aveva una superficie inferiore a tre ettari di terreno. Del ghetto originario non è rimasto nulla, se non il suo significato: uno spartiacque traumatico nella vicenda della più antica comunità capitolina. Una sua magistrale ricostruzione si deve alla ricerca archivistica di Kenneth Stow, studioso eminente dell’ebraismo (Il ghetto di Roma nel Cinquecento”, Viella Editrice, 2014) .
Gli ebrei, tra cui i venti-trentamila stanziali a Roma già dal secondo secolo a.C. (sostenitori di Giulio Cesare e invisi a Cicerone), nell’età imperiale vengono organizzati in “collegia”, strutture giuridiche con diritti corporativi, incluso quello di ereditare proprietà. Tali diritti saranno aboliti dagli imperatori cristiani, tra la fine del quarto e l’inizio del sesto secolo. Pur avendo mantenuto lo status di cittadini romani, gli ebrei non cesseranno di essere vittime di violenze atroci: omicidi, massacri, accuse di profanazione di ostie e di uso di sangue umano per macabre cerimonie. Nell’Umbria medievale ogni anno venivano perfino sottoposti alla “sassaiola santa”, una lapidazione ritualizzata per ricordare che erano teologicamente nemici del figlio del Signore.
Nella seconda metà del tredicesimo secolo, la condizione degli ebrei residenti nello Stato pontificio peggiora sensibilmente. Nel 1257 a quelli romani viene imposto uno “sciamanno”, cioè un segno distintivo già prescritto nel 1215 dal quarto Concilio Lateranense: un pezzo di stoffa gialla -a forma di cerchio- cucito sul vestito per gli uomini, e due strisce blu cucite sullo scialle per le donne. Più avanti si aggiungerà l’obbligo di indossare un tabarro rosso sopra il vestito (poi sostituito da un cappello giallo). Gli ebrei romani non erano – se non in minima parte – prestatori di denaro. Erano soprattutto commercianti di grano e di altri generi alimentari; oppure artigiani, particolarmente abili nei lavori di sartoria e nella produzione di pizzi pregiati.
Nel 1471 a Roma si contavano almeno sei sinagoghe (tutte situate in un unico edificio), cinque delle quali rappresentavano nazionalità differenti, ma si ha traccia anche di una composta di sole donne. Un numero destinato ad aumentare rapidamente, in virtù dei flussi migratori provenienti dalla Provenza, dalla Spagna, dalla Germania, dalla Sicilia e dal Nord Africa. Secondo un censimento approssimativo, alla metà del secolo gli ebrei erano circa un decimo dei cinquantamila abitanti di Roma. Luoghi essenzialmente di studio e di preghiera, le sinagoghe talvolta svolgevano anche funzioni caritatevoli, con la raccolta di fondi a scopo filantropico e l’elargizione di una dote alle ragazze più bisognose.
Pur non avendo alcuna intenzione di concedere pieni poteri giurisdizionali alla comunità ebraica, i pontefici tolleravano l’intervento dei collegi di arbitrato volontario, perché si era rivelato come un prezioso veicolo di armonia sociale. Svincolato dall’interpretazione letterale delle leggi, l’arbitro poteva risolvere controversie di ogni tipo con compromessi che non avevano il carattere inappellabile delle sentenze dei tribunali. Più in generale, l’arbitro agiva da mediatore tra individui e organismi di governo, sulla falsariga di quell’istituto del “patronage” (costituito da reti di vicini o di amici) che stava diffondendosi nelle città rinascimentali. Nel minuscolo ghetto romano era infatti assai vivo e praticato il concetto di “shekunah” (vicinato). Ancora più rilevante, come cerniera tra sfera pubblica e sfera privata, era il “Sofer Meta” (notaio cittadino). Il perfezionamento della “ars dictaminis” (arte notarile) si deve a Isaac Piattelli. Il suo lavoro era simile a quello dell’avvocato e del giudice istruttore: redigeva contratti, ascoltava testimoni, annotava gli accordi in caso di arbitrato, compilava i più svariati atti pubblici. Senza la sua penna gli ebrei non avrebbero avuto strumenti per far valere patti e decisioni.
Se il Cinquecento aveva consentito agli ebrei romani spazi di autogoverno, il secolo successivo è segnato dalla determinazione pontificia di rendere i giudei più vulnerabili e più disposti alla conversione. Già la bolla “Antiqua iudaeorum improbitas” (1581) aveva fatto rientrare sotto l’egida dell’Inquisizione le imputazioni di eresia, di blasfemia e di magia nera. Per altro verso, il debito enorme accumulato nei confronti della Camera Apostolica (il ministero del Tesoro pontificio) e la chiusura dei banchi di prestito (1682) daranno un colpo di grazia al relativo benessere raggiunto faticosamente dalla comunità del ghetto.
Inizia da allora un declino economico che nel 1843 verrà descritto così da un viaggiatore inglese, Jeremiah Donovan: “Dei 3600 ebrei di Roma, comprendenti 800 famiglie, 1900 sono poveri, 1000 si mantengono arrabattandosi e il resto vive in condizioni agiate. I poveri in genere raccolgono stracci vecchi, quelli che si arrabattono commerciano in abiti usati e i più agiati sono mercanti. Pochi imparano un mestiere artigianale, le belle arti o coltivano la letteratura; la classe più abbiente è soddisfatta della porzione di sapere utile ai fini commerciali”. Cosa esattamente il nostro viaggiatore intendesse per “condizioni agiate” potrebbe essere motivo di discussione. Ma si può ragionevolmente sospettare che, se il ghetto di Roma non fosse stato abolito nel 1870, perfino i mercanti agiati avrebbero languito in uno stato di endemica precarietà, finanziaria e civile.