La morte di Anis Amri, il sospetto autore dell’attentato che a Berlino ha tolto la vita a dodici persone il 19 di dicembre 2016, è stata per la Germania la fine di un incubo, quello che egli potesse colpire ancora, magari a Natale o a Capodanno. Eppure, per lo stato di diritto – come sottolinea il Die Zeit – questa morte rappresenta uno sconfitta negandoci la possibilità di avere risposte a quelle domande ancora aperte sull’attentato: Ha agito da solo? Stava fuggendo o pianificava altri attentati? Come ha fatto a fuggire?
Ma sopratutto la domanda più importante, non solo per la Germania, ma per tutta l’Europa: perché?
La motivazione più scontata, fornita dallo stesso Amri in quel video di sei secondi registrato poco prima dell’attentato e ritrasmesso nei giorni seguenti dalla stessa ISIS, è rispondere alla chiamata alle armi di al-Baghdadi e portare con ogni mezzo possibile il terrore in Europa. Ma la storia dell’attentatore ci presenta altri livelli di lettura ovvero i rapporti fra Europa e migrazioni, così come i veri obiettivi del sedicente Stato Islamico nel continente.
Chi era Anis Amri. Nel febbraio del 2011, mentre la Tunisia scivola nel caos dopo la fuga del Presidente/Dittatore Ben Ali durante la cosiddetta Rivoluzione dei Gelsomini, Anis Amri, allora diciottenne, fugge dal suo paese verso l’Italia. Arriva a Lampedusa, passa per il centro d’accoglienza di Belpasso, in Provincia di Catania, e da qui arriva al carcere. A pochi mesi dal suo arrivo Amri, infatti, è protagonista di una protesta contro la qualità bassa del cibo nel centro e le lungaggini burocratiche per il riconoscimento dello status di rifugiato politico. Questa sfocia subito in rivolta e con essa, arriva il carcere a Palermo: il sogno di rifarsi una vita in Europa è già finito, per di più, suppongono gli inquirenti, entra in contatto con l’islam radicale. Dopo quattro anni di galere, per lui sarebbe pronto il rimpatrio, ma le autorità tunisine non ne riconoscono l’identità e al giudice italiano non rimane che ordinarne l’espatrio. Amri, come molti altri immigrati, si dirige verso la Germania. Arrivato nella Renania settentrionale, entra in contatto con il predicatore salafita Abu Walaa, arrestato a novembre come reclutatore in Germania di leve dell’ISIS.
L’Arruolamento nell’ISIS. Il suo arruolamento – come quello di molti altri terroristi improvvisati – sembra partire proprio dalla frustrazione e dalla disillusione nate nel corso di questi cinque anni. Egli rappresenta, nei fatti, la recluta perfetta per l’organizzazione terroristica: giovane, emarginato e senza un vero futuro o possibilità di integrazione in Europa. Come lui ce ne sono altri, persone che passano dal sogno di una nuova vita al rifiuto violento della stessa società in cui si è cercato rifugio o nei “terza/quarta generazione”, figli o nipoti di migranti emarginati o isolati che abbandonano la società in cui sono nati e cresciuti per andare a combattere in Siria e in Iraq o rendersi protagonisti di attentati. Si tratta di giovani musulmani – ma il discorso potrebbe allargarsi fuori dai confini culturali – in cui la religione diventa la risposta all’emarginazione e che rischiano di avvicinarsi agli ambienti dell’Islam radicale, dove un abile reclutatore – Abu Walaa nel caso di Amri- può facilmente instradarli alla “Jihad” ovvero a voler distruggere la stessa società in cui cercavano rifugio.
La Strategia dell’ISIS. La paura, nei piani del sedicente Stato Islamico, è necessaria per indurre l’opinione pubblica europea all’intolleranza nei riguardi della vasta comunità islamica presente all’interno del continente, creando uno “scontro di civiltà” soprattutto in quei paesi che fanno del multiculturalismo la loro bandiera. Belgio, Francia e Germania, dove si sono avuti i maggiori attentati, diventano obiettivi perché – tramite le loro politiche di integrazione – sembrano dire che “cristiani, atei, ebrei e islamici possono vivere insieme, rispettando e venendo protetti dalle nostre costituzioni democratiche”. Niente può essere più lontano da quanto professato dall’ISIS, per cui la convivenza fra cristiani e musulmani non solo è impossibile, ma chi la professa va distrutto in Medio-Oriente come nel resto del mondo. A scanso di equivoci però, il fine non è il distruggere l’Europa o l’Occidente, ma – da una parte – bloccare i processi migratori e – dall’altra – ampliare il numero di possibili nuovi miliziani per combattere le proprie guerre in Siria, in Iraq, in Libia e Yemen o per compiere altri attentati, finendo per creare un sistema che si auto-riproduce senza sforzo ed a scapito dell’identità democratica europea. L’ISIS, e lo si vede nel suo modo di comunicare, non parla a quell’Europa democratica dalle radici giudeo-cristiane, ma all’Islam del continente così come a quello mondiale.
“L’ISIS, e lo si vede nel suo modo di comunicare, non parla a quell’Europa democratica dalle radici giudeo-cristiane, ma all’Islam del continente così come a quello mondiale”
Per questo motivo, non si colpiscono politici o istituzioni, ma la società stessa, la routine e le tradizioni europee, solo così è possibile alimentare l’insicurezza, far percepire la minaccia e fomentare, di conseguenza, l’intolleranza. Che questa si manifesti tramite aggressioni a comunità islamiche, manifestazioni o in atti politici concreti, all’ISIS sembra non interessare perché l’importante è che tutto questo aumenti l’emarginazione e il risentimento verso le comunità islamiche europee.
La Reazione dell’Europa. I risultati di questa strategia sono sotto gli occhi di tutti. Il termine “siamo in guerra” riecheggia in tutto il continente anche in politici di solito ben lontani da certe esternazioni populiste e l’estrema destra guadagna consensi. Nei giorni dopo l’attentato Alternative für Deutschland ha guadagnato 2 punti percentuali, mentre il terrore in Francia ha fatto sì che il confronto per le presidenziali si disputi fra la Destra di Fillon – critica nei confronti dell’Islam e dei migranti – e l’estrema Destra di Le Pen. Allo stesso modo in Olanda – altro paese prossimo alle elezioni – salgono la paura ed allo stesso tempo i voti per il populista Wilders, ma lo stesso discorso vale per altri paesi come l’Italia, la Danimarca o l’Ungheria.
Forse è vero, forse siamo veramente in guerra. Solo non contro l’ISIS, ma contro noi stessi, contro le nostre ansie e la paura di ciò che sentiamo diverso, non “europeo”. Se questa è la nostra battaglia, la stiamo perdendo.
Articolo originariamente pubblicato dallo stesso autore su il Caffè e l’Opinione.
Fonte: il Caffè e l’Opinione