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Vi spiego sfide e incognite del nuovo Monte dei Paschi di Stato

de bortoli, europa

Dopo un inspiegabile ritardo il governo è giunto a fare quello che doveva fare fin dall’inizio: intervenire nel capitale del Monte dei Paschi  di Siena per poi offrire subito la partecipazione al mercato. In Italia, come in Europa, finché non si arriva alla crisi non si prendono decisioni. Si reagisce, non si agisce. E, quando si decide, non si fa tutto ciò che è necessario per superarla: la si trasforma solo in una crisi più piccola, ma sempre crisi rimane. Le storie delle quattro banche italiane fallite e del debito greco sono casi da manuale.

La prima giustificazione ufficiale di siffatti comportamenti è proteggere il contribuente dall’onere dei salvataggi bancari. Intento encomiabile, ma nessuno si è fatto carico di dimostrare che, nel caso di una crisi bancaria grave, come sarebbe stato il caso del Monte dei Paschi, la diffusione delle paure di insolvenza avrebbe causato al Paese, e quindi al contribuente, un costo ben più elevato. La seconda giustificazione è che l’intervento pubblico altera le condizioni di competitività tra banche, senza indicare di quale competitività parlano, in un mercato segmentato come quello europeo, dove esistono tante legislazioni bancarie nazionali e tante definizioni di deposito e di credito da rendere impossibile un confronto competitivo; oltre ovviamente all’esistenza di politiche protezionistiche di stampo nazionalistico, dalle quali non è immune neanche l’Italia.

Mai la normativa è stata tanto lontana dalla realtà e dalle necessità di un suo governo. Si inseguono obiettivi ideali fuori dalla realtà, aggiungendo una ciliegina sulla torta (più simile però a una pizza): il vanto d’averlo fatto. Lord Hill, il commissario europeo per la Stabilità Finanziaria, lo aveva capito e aveva deciso di riesaminare la direttiva sullo schema di garanzia dei depositi, ma l’essere inglese lo ha costretto a lasciare l’incarico. Mi aveva chiesto un promemoria su ciò che doveva essere corretto e glielo preparai. Sarà finito in un cassetto, dato che il suo successore continua a inseguire principi ideali. Il perpetuarsi di una situazione come quella attuale consegnerà l’Unione Europea nelle mani di chi l’Europa non vuole. Se si continua a chiamare questa attitudine populismo, invece di capirne le radici e contrastarle intelligentemente, come da molti sostenuto, sarà per l’Unione Europea la fine della storia (o l’inizio di una nuova).

Prima o dopo le autorità di vigilanza europee (a partire dalla vigilanza unica guidata da Danièle Nouy) dovranno spiegare come mai bastavano 5 miliardi di euro in caso di fondi privati e invece ne occorrono 8,8 in caso di fondi pubblici. Come pure il governo italiano dovrà spiegare sulla base di quali calcoli ha stanziato 20 miliardi per intervenire nelle banche in difficoltà. Non si capisce perché il governo non si sia limitato a offrire la semplice garanzia di intervenire ove fosse stato necessario, senza indicare l’importo e senza iscriverlo nel grande libro del debito pubblico, come fece a suo tempo un altro governo con il “decreto Ventriglia”, che ha ben funzionato. Penso sarebbe bastato per indurre i privati a entrare nel capitale delle banche in crisi.

I danni fatti al risparmio con le direttive europee approvate dall’Italia sono irrimediabili e ciò che rimane di buono poggia sull’illusione che i depositi siano protetti, cosa non vera per l’esiguità e i tempi di costituzione dei fondi a disposizione del Fondo Tutela Depositi e gli oneri che porta a carico del sistema bancario. Rischiano infatti di metterlo in crisi con un meccanismo simile a un pozzo di San Patrizio. Queste cose le possono pensare solo a Bruxelles, con l’aiuto silenzioso prima e chiassoso poi delle autorità romane.

Per finanziare queste esigenze e i loro profitti le banche spremono il sistema dei pagamenti, spostando l’onere sui depositanti, che sono in numero maggiore dei contribuenti, con una quota che ha maggiore capacità di assorbimento degli shock. La dirigenza bancaria dovrebbe avere il buon senso di non vantarsi degli utili così fatti e di cessare di riscuotere prebende nel caso di perdita del loro incarico per il mancato raggiungimento degli obiettivi di crescita. In un sistema economico che non cresce e con tassi ufficiali vicini allo zero il credito non può crescere; se cresce, imbarca rischi a carico dei depositanti e degli obbligazionisti, erodendo il valore delle azioni.

La politica di innalzare i parametri di capitale è corretta, ma non protegge il sistema dei pagamenti, essendo esso pari a un multiplo del capitale. Affinché la moneta si possa considerare sicura non resta che seguire il suggerimento del più grande esperto di crisi bancarie, il professor Hyman Minsky, che con Guido Carli chiamammo in Confindustria nel corso della crisi bancaria seguita alla crisi economica dovuta all’aumento dei prezzi petroliferi: egli insisteva che il sistema dei pagamenti dovesse essere rigorosamente distinto dal sistema del credito. Con i mezzi tecnici a disposizione ciò è possibile, dato che basterebbe una sezione della rete blockchain dove il solo proprietario dei mezzi di pagamento possa attingere risorse di sua iniziativa, senza intromissioni da parte delle banche o di altre istituzioni vogliose di impossessarsi della sua moneta per i propri fini. Non sarebbero più necessari schemi di protezione dei depositi. Se si introducesse questa riforma le banche che vogliono sopravvivere dovranno svolgere un’attività di gestione del risparmio seria e profittevole, sulla quale dovrebbe vigilare una sola istituzione che garantisca la trasparenza di tutta l’attività del credito, invece della dicotomia tra vigilanza bancaria e finanziaria.

So bene che non se ne farà nulla, perché siamo ormai immessi nell’ignoranza monetaria più profonda e nel rifiuto di discuterne, dando la colpa al risparmiatore tenuto nell’ignoranza dalle autorità che dispongono delle informazioni che lo renderebbero edotto.

(Pubblicato su MF/Milano Finanza, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)

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