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Mps, ecco sfide, incognite e compiti dello Stato azionista

Mucchetti Mediaset Calenda

Il decreto-legge su MPS è un provvedimento assai rilevante, che segna una svolta sia per le risorse stanziate sia per il significato che il ritorno dello Stato nazionalizzatore potrà avere nella storia dell’economia italiana. Così si legge nella relazione al decreto che Massimo Mucchetti ha illustrato alla commissione Industria di Palazzo Madama. Leggi qui il parere della Commissione

Quanto alle risorse, i 20 miliardi, che vengono stanziati a valere sul debito pubblico, si confrontano con i 37 miliardi di euro che costituiscono, secondo i calcoli fatti nel 2000 per la Commissione bilancio della Camera dei deputati da R&S, la società di ricerche e studi di Mediobanca, l’incremento del debito pubblico determinato dai fondi di dotazione versati all’Iri lungo tutta la sua storia, 67 anni, al netto delle risorse incassate con la privatizzazione.

Naturalmente è ben possibile che lo Stato, rivendendo presto e bene le azioni bancarie, che sta per acquistare, si ripaghi l’investimento. È già accaduto con Eni ed Enel o, per stare al settore bancario, con il salvataggio delle banche svedesi e di quelle americane. Sul bilancio, ancora provvisorio, dei salvataggi bancari britannici, di cui taluni oggi parlano, occorre maggiore cautela. I dati richiamati sono utili er apprezzare la magnitudo dell’operazione in atto.

Quanto al ritorno dello Stato nella posizione di azionista di controllo dopo vent’anni di privatizzazioni, non può essere considerata una mera parentesi. Ci saranno altre occasioni per approfondire il significato di questa svolta, i suoi tempi, gli strumenti utili e disponibili, il contesto prima segnato dalla vicenda Vivendi-Mediaset, poi da quella di Telecom Italia e infine dalle grandi e tuttora opache manovre sulle Assicurazioni generali.

Ma fin d’ora qualche riflessione sui doveri dello Stato azionista può essere pur fatta, a partire da chi e da come sia chiamato a valutare i business plan e i top manager ai quali il Governo affida l’investimento dello Stato. Non a caso l’articolo 17, comma 2, del decreto in titolo offre la possibilità di condizionare la sottoscrizione dell’aumento di capitale riservato al Ministero dell’economia e delle finanze alla revoca o alla sostituzione dei consiglieri esecutivi e del direttore generale della banca in crisi.

L’urgenza del decreto è emersa tutta a un tratto, alla vigilia di Natale, o poteva essere colta prima, risparmiando tempo e denaro? Al riguardo, mi limito a ricordare i fatti. Prima di Natale il consiglio di amministrazione di Monte dei Paschi di Siena (MPS) ha preso atto che la ricapitalizzazione di mercato da 5 miliardi, da concludere entro il 2016, non era ancora conclusa.

Il consorzio bancario di collocamento e garanzia non si era formato. Le banche internazionali disposte a proporre le nuove azioni di Mps ai loro clienti non avevano mai sottoscritto l’impegno a rilevare l’eventuale inoptato. Rammento, a questo proposito, che la mancanza di tale garanzia da parte del pool bancario di collocamento non costituisce un problema quando i titoli siano emessi da soggetti capaci di esercitare una forte attrazione sugli investitori istituzionali e non; costituisce invece una difficoltà fatale ove il soggetto emittente non abbia tale qualità. Mps non l’aveva ormai da tanti anni, essendo già stato destinatario dei Tremonti bond e dei Monti bond.

Mi chiedo per quali ragioni, quando il consiglio di Mps chiese alla Vigilanza unica la proroga del termine a gennaio, questa non gli sia stata concessa. La Vigilanza unica, che pretende la ricapitalizzazione dei soggetti vigilati ove non riescano a conservare i requisiti patrimoniali nello scenario avverso in sede di stress test, può e deve essere criticata per come esercita il suo mandato. Lo stesso meccanismo degli stress test può essere censurato per gli effetti pro-ciclici che determina. Ma ritengo che non sia questa l’occasione per aprire un dibattito che avrebbe potuto essere fatto a suo tempo e che dovrà essere ripreso.

Oggi sussiste un’emergenza da affrontare; in tale prospettiva, occorre anzitutto ricordare che, alla vigilia di Natale, non aveva senso chiedere proroghe non avendo in mano nulla di concreto, come nulla il consiglio di MPS aveva mai avuto prima. Di più, non aveva senso perché Banca Mps stava perdendo depositi in misura crescente. Il fenomeno, già visibile dalla relazione sui primi nove mesi dell’anno, si stava accentuando nell’ultimo trimestre, come ha ammesso l’amministratore delegato, Marco Morelli, nella recente audizione dinanzi alla Commissione finanze.

Come sempre accade in questi casi, nei quali i rimedi proposti si rivelano non attuabili. Come è noto, l’emorragia dei depositi costituisce il pericolo più grande per una banca, poiché se la corsa agli sportelli per ritirare i propri risparmi supera a certa soglia, la banca chiude. Non c’è aumento di capitale che possa surrogare la caduta verticale della fiducia del risparmiatore. Non sfugge dunque quanto siano cruciali i primi 12 articoli del decreto-legge, che consentono allo Stato di fermare eventuali deflussi di raccolta sostenendo le nuove emissioni di obbligazioni della banca in difficoltà allo scopo di evitare crisi di liquidità.

Quando la Vigilanza unica ha negato a Mps una proroga che avrebbe alimentato un ulteriore, pericolosissimo deflusso della raccolta, ha esercitato bene la sua responsabilità. A mio parere, non aveva senso, allora, alzare scudi anti-europei su questo punto. Ma in tal modo la Vigilanza unica ha anche posto il Governo di fronte a un’alternativa: o lasciare Mps al suo destino, e cioè lasciarlo andare alla risoluzione secondo il meccanismo del bail in, oppure intervenire direttamente e ricapitalizzare la banca utilizzando il meccanismo del burden sharing.

La prima opzione è quella seguita nell’autunno del 2015 per Banca Etruria, Banca Marche, Carichieti e Cariferrara; la seconda opzione è quella prevista dal presente decreto. Inquadrando il dilemma nella storia recente, la prima opzione costituisce la versione aggiornata e ordinata della scelta che fece il Tesoro degli Stati Uniti d’America lasciando la parola al mercato sulla Lehman nel settembre del 2008, mentre la seconda opzione si inserisce nella linea dei salvataggi pubblici, nelle forme possibili nel 2016 in quella parte del mondo chiamata Europa. Entrambe le opzioni sono costose per il contribuente. La prima lo è di più, ancorché il contribuente non sia chiamato a pagare in prima battuta. I fallimenti bancari, infatti, hanno effetti disastrosi e sistemici sull’economia, che impongono di fatto al cittadino perdite superiori al prelievo diretto una tantum.

Il provvedimento in esame giunge quando il sistema bancario nel suo complesso sta aumentando la raccolta e riducendo il flusso delle nuove sofferenze. Ritengo che, se il sistema bancario fosse omogeneo, non ci sarebbe bisogno di un tale decreto. Ma il sistema bancario non è omogeneo: esistono aree di crisi, ormai note e in via di peggioramento.

La situazione nelle quattro banche regionali, non è migliore, ma anzi peggiore, l’Etruria e le altre che vengono cedute a zero dopo un’ingente ricapitalizzazione, e nelle due ex popolari venete, tenute in vita dal Fondo Atlante ma ancora in drammatica difficoltà dovuta al deflusso della raccolta determinato dall’incertezza sul loro futuro. Queste altre aree di crisi, a mio modo di vedere, possono richiedere ulteriori interventi pubblici a valere sul Fondo che il Parlamento si accinge ad approvare. È vero che l’articolo 25 attribuisce alla Banca d’Italia la facoltà di richiedere alle banche vigilate contribuzioni aggiuntive al Fondo nazionale di risoluzione, che è già intervenuto nelle quattro banche regionali.

È possibile che queste nuove contribuzioni servano al rimborso del prestito di 1,6 miliardi concesso da Intesa San Paolo, Unicredit e Ubi al Fondo nazionale di risoluzione evitando così di escutere la garanzia prestata dalla Cassa depositi e prestiti su questo finanziamento. Si tratta di una possibilità, poiché l’articolo 25 – saggiamente – non attribuisce finalità specifiche a queste contribuzioni aggiuntive, ma anche poiché – e su questo avrei desiderato una maggiore chiarezza – non sono giunte risposte univoche da parte del Ministero dell’economia e delle finanze e della Banca d’Italia in occasione delle rispettive audizioni presso la Commissione finanze.

Sulla base dei fatti esposti, ritengo che le situazioni di crisi fossero leggibili già nella prima metà del 2016 e dò atto al Governo Gentiloni di aver colto l’urgenza delle crisi bancarie in tempi rapidi. Sarebbe stato meglio se la stessa capacità di analisi fosse stata dimostrata in precedenza. Il ministro Padoan, nelle audizioni, ha spiegato che prima di far intervenire lo Stato, il Governo deve accertare che le soluzioni di mercato non siano praticabili.

Tuttavia, a parte il fatto che la situazione delle quattro banche regionali era nota, non arrivando offerte con prezzo positivo adeguato a rimborsare almeno in parte Intesa Sanpaolo, Unicredit e Ubi, l’operazione di mercato su Mps non è mai partita nei fatti. Dunque si doveva e si poteva capire per tempo che il mercato non avrebbe salvato MPS. In audizione, alla domanda se la banca fosse disponibile a dare evidenza al Parlamento e al mercato delle offerte di sottoscrizione, che, secondo la stampa, venivano da investitori istituzionali esteri, e della loro revoca (cita, in proposito, il Fondo Sovrano del Qatar), l’amministratore delegato non ha dato risposta. Si attende di avere maggiori informazioni allorquando le inchieste della magistratura avranno accertato se ci sia stata una manipolazione del mercato per suscitare un clima favorevole a un’operazione improbabile.

Vorrei poi tornare sul ruolo dello Stato azionista. La somma di 20 miliardi che il provvedimento prevede può essere sufficiente, e addirittura eccedente, qualora il risanamento di MPS avvenga gestendo al meglio la cessione dei crediti in sofferenza. Diversamente diventa difficile fare previsioni. Mi chiedo se valga ancora nel capitolo sofferenze il piano industriale di MPS, predisposto da JP Morgan e Mediobanca, approvato dal consiglio del 29 luglio e confermato da quello di fine novembre. In audizione non sono giunte risposte impegnative né dall’amministratore delegato né dal Ministro dell’economia.

E tuttavia il punto è assai rilevante. Il vecchio piano prevedeva la cessione delle sofferenze come atto propedeutico, anzi come precondizione dell’aumento di capitale. A comprare sarebbe stato un veicolo finanziario che avrebbe ricavato la somma necessaria emettendo obbligazioni. Poiché buona parte di queste obbligazioni avrebbe dovuto ottenere la garanzia dello Stato per poter essere emesse a tassi convenienti per l’emittente, serviva un rating. Dunque ci voleva tempo.

Per poter pagare subito, il veicolo avrebbe dovuto richiedere un prestito ponte alle banche, JP Morgan in testa, che si sarebbero a loro volta garantite con l’intero pacchetto di sofferenze valutate per l’occasione al 17-18 per cento del valore facciale, esattamente com’era avvenuto con le quattro banche regionali. Mps, insomma, avrebbe dovuto vendere a terzi le sue sofferenze nel momento in cui il suo potere contrattuale era minimo. La soluzione non è stata accolta, ma nemmeno scartata, visto che in sede di audizione si è parlato di diverse opzioni sul tavolo.

Lo schema citato non è obbligatorio e ne evidenzio un altro: Unicredit, per esempio, cederà le sofferenze a un veicolo, partecipato dalla banca al 49 per cento, e lo farà dopo la ricapitalizzazione, cioè in condizioni migliori del periodo pre-ricapitalizzazione. Il costo di cessione delle sofferenze alla pur disastrata Popolare di Vicenza è inferiore a quello previsto da JP Morgan e Mediobanca per MPS. Sarebbe saggio se l’azionista Stato italiano seguisse l’esempio del francese Mustier, alzando il valore benchmark delle sofferenze fissato su percentuali così penalizzanti con la risoluzione di Etruria e delle altre tre piccole banche regionali. Comprendo che una simile svolta potrebbe mettere in imbarazzo chi al Ministero dell’economia aveva avallato certe scelte, ma ritiengo che l’interesse del Paese venga prima dell’impossibile difesa di coerenze personali che la storia appena consumata ha smentito.

Il decreto-legge corrisponde alle necessità dell’ora, ma il risultato concreto dipenderà molto dalla sua esecuzione. E questa potrà essere tanto più rigorosa quanto più si saranno ricavate le giuste lezioni dalla storia. In conclusione, il decreto legge ricostituisce la figura dello Stato azionista in una grande impresa, il che, a mio parere, rappresenta una svolta rilevante, dai contorni non del tutto definiti, soprattutto in termini temporali. In proposito occorre riflettere su quale ruolo intenda svolgere lo Stato azionista e con quali modalità.


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