“Vedrai che cambierà”. Questo il leitmotiv canticchiato dagli orfani obamiani e clintoniani a mano a mano che si avvicinava la fatidica data dell’insediamento di Donald J. Trump alla Casa Bianca, avendo esaurito, per il momento, i tentativi di delegittimare la sua vittoria dell’8 novembre. La distinzione fra il Trump-candidato (già noto) e il Trump-presidente (ancora sconosciuto) avrebbe potuto essere una tregua ma il neo-presidente, con il breve discorso, a braccio, che ha fatto subito dopo il giuramento, ha spazzato via questa ipotesi ben sapendo che deve mandare al tappeto l’opposizione in tempi brevissimi altrimenti finirà logorato nella guerriglia messa in atto dai suoi avversari.
In apparenza, ha fatto una sola concessione. Riferendosi a Barack e Michelle Obama, li ha ringraziati, dicendo: “Siete stati magnifici”. Ma le parole d’obbligo non possono escludere un’intenzione sarcastica poiché poco dopo ha detto: “Il momento delle chiacchiere è finito, è l’ora di agire”. E nel suo pensiero, come detto più volte durante la campagna elettorale, gli otto anni della presidenza Obama hanno rappresentato proprio questo, “il momento delle chiacchiere”. Momento identificato con l’establishment di Washington, di quel mondo politico – ha aggiunto – che “ha protetto se stesso, ma non i cittadini”, “un piccolo gruppo (che) nella capitale della nostra nazione ha raccolto i frutti del governo, mentre la gente ha sostenuto il costo”. Trump ha rovesciato il discorso: “Una nazione esiste per essere al servizio dei suoi cittadini” e da qui ha fatto derivare il suo obiettivo: America first, cioè l’America e il suo interesse anzitutto. Ma Trump ha aggiunto – e questa è una novità assoluta che cambia la prospettiva – “che è diritto di tutte le nazioni mettere al primo posto i propri interessi” per cui gli Stati Uniti non cercheranno di imporre il loro stile di vita agli altri, ma cercheranno di brillare per il loro esempio. In queste due concetti correlati c’è il giudizio negativo sulla globalizzazione, come è stata realizzata finora, la rinunzia ad esportare, o imporre, la democrazia, ma c’è anche – sebbene inespressa – la fine della “eccezione” americana, quel senso di superiorità, questo sì pieno di retorica, che ha sempre accompagnato la formulazione della politica degli Stati Uniti almeno da Woodrow Wilson, forse con la sola eccezione di Richard Nixon, non a caso travolto dall’establishment.
Non sappiamo quanto il vecchio Henry Kissinger, in qualche colloquio con il candidato Trump di cui ha riferito la stampa, abbia influito in questa impostazione realistica. Probabilmente c’è stato qualcosa. Il riconoscimento che ciascuna Nazione abbia il diritto di perseguire il proprio interesse e che i governi abbiano anzitutto il dovere di realizzarlo, è una verità di per sé evidente che si scontra con qualsiasi concezione elitaria dell’uso del potere e rientra nei ranghi della competizione tra uguali nei diritti e diversi nei risultati. Ciò che corrisponde a una visione liberale dal basso, opposta alla visione illuminata che scende dall’alto. Se questa è l’interpretazione corretta del trumpismo, allora la frase del trasferimento del potere dall’establishment al popolo, e non del solo passaggio del potere da un partito all’altro, non è retorica. In ciò emerge il patriottismo – non il nazionalismo – di Trump: se una fabbrica emigra, non è colpa dei lavoratori americani se restano senza lavoro o se devono accontentarsi di salari minori; ma se resta, o ritorna, la capacità produttiva dell’America tornerà a brillare. In fondo, Trump chiede, e protette di agire in questa direzione, che agli americani non siano sottratte risorse alla produzione dello sviluppo di cui sono capaci. Questa non è la fine della globalizzazione che, come ha detto il premier britannico Theresa May, deve avere delle regole, dettate dagli Stati, in corrispondenza alla volontà espressa dai cittadini.
Il principio della globalizzazione, “meno Stato, più mercato”, che poi significa dare più poteri ai più forti, significava la fine del ruolo della politica e lo svuotamento della democrazia. Colpisce il fatto che Trump non si sia fatto scrivere un brillante discorso dagli intellettuali bravi a trovare gli slogan che finiscono nei libri di storia. È andato al sodo: i cittadini eleggono un governo affinché faccia il loro interesse e li difenda dalle minacce. Così negli Stati Uniti come in ogni altro paese. Altrimenti, a che servono le elezioni? Certo, questa è una semplificazione, ma l’eccesso di sofisticazione, che trasforma i politici in intellettuali e gli intellettuali in politici, rischia di fare perdere di vista l’essenziale e quella divisione di ruoli senza la quale è impossibile individuare le responsabilità di ciascuno e le elezioni si riducono a marketing. Seguendo la linea tracciata da Trump, comunque, aspettiamo i fatti.