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Obama e Siria, analisi critica di un fallimento

In qualche modo il ruolo secondario giocato dagli Stati Uniti nella crisi siriana ha avuto almeno il merito di costringere anche gli osservatori regionali e internazionali più “occidentalisti” a non ignorare il ruolo giocato dagli attori locali e da potenze regionali come Turchia, Iran o le monarchie del Golfo e, più recentemente, da altre potenze internazionali come la Russia. Spesso tale ruolo viene tuttora descritto in chiave “occidentalista” (la Turchia e le monarchie arabe “alleati dell’Occidente” e quindi in qualche modo “lunga manus” di Washington) ma in modo sempre meno convinto man mano che il conflitto si allunga e le divergenze e le contraddizioni, anche rispetto alla politica americana, emergono innegabili. La Turchia di Erdogan, per esempio, è stata a lungo additata da molti commentatori come una sorta di stato canaglia che al servizio dell’Occidente intesseva trame nascoste con Isis e altre forze islamiste, soprattutto durante il teso confronto avuto con la Russia di Putin che ha portato all’abbattimento del jet russo da parte della contraerea turca. A quell’episodio è seguita una violenta campagna della propaganda russa, culminata in una conferenza stampa che a mio parere sarebbe più utile studiare nell’ambito della psicologia sociale piuttosto che della geopolitica. In sostanziale mondovisione i russi hanno spiegato, infatti, che esisteva tra Turchia e Stato islamico un consolidato accordo che includeva il traffico clandestino di petrolio siriano attraverso il confine turco. Tale traffico era organizzato nientemeno che dal figlio dello stesso Erdogan che si occupava anche della sua commercializzazione verso paesi terzi (naturalmente i perfidi occidentali) attraverso i porti turchi. Le prove di tutto questo oscuro intreccio di interessi occulti e familistici? Foto satellitari di camion in punti non meglio precisati del confine turco-siriano (ma potevano essere state fatte anche Zimbabwe per quello che si poteva vedere). È un po’ come se un vostro amico venisse da voi e vi dicesse che vostra moglie vi tradisce da molti anni col vostro migliore amico, che lei è perdutamente innamorata di lui e che insieme complottano per uccidervi e godersi insieme l’eredità. E come prova inconfutabile vi riportasse il fatto che “li ha visti parlare una volta davanti al tabaccaio” ma “non è che son proprio sicuro che fosse lei”. Ma, magie della psicologia sociale, una storia che in privato sarebbe niente di più di un racconto delirante, trasmessa in mondo visione da soggetti seri in uniforme con le facce molto sicure di quello che dicono diventa improvvisamente lampante, innegabile. In quei giorni anzi era diventato virale un editoriale di Fulvio Scaglione pubblicato sul sito del giornale di cui è vice-direttore, Famiglia Cristiana, in cui l’autore si scagliava violentemente contro la Turchia, criminale e serva dell’Occidente, e in cui ricordava come anche lui mesi prima sul confine avesse visto “camion sospetti” attraversare il confine (misteriosamente lui però non ne aveva dedotto la presenza di petrolio, il coinvolgimento di Erdogan Junior né i porti turchi). Ma il periodo di “Erdogan amico dell’Isis” non è durato moltissimo. Per quanto Erdogan sia spesso ancora al centro delle polemiche per il suo tentativo, finora colmo di successo, di trasformare la Turchia in una autocrazia plebiscitaria al pari della Russia di Putin, la sua politica siriana è sempre meno nel centro del mirino da quando è di fatto passato nel campo russo entrando in polemica aggressiva con gli Stati Uniti. Tra i commentatori più ideologici si respira anzi una certa soddisfazione rispetto alla capacità avuta dal trio Russia-Turchia-Iran di escludere dal gioco gli americani. A dimostrazione che in fondo il vero ago della bilancia in grado di determinare l’appartenenza di Erdogan alle forze del male (quantomeno in Siria) non fosse né l’appoggio per i ribelli, né le foto sgranate russe o i sospetti di Scaglione, quanto piuttosto la sua percepita vicinanza agli Stati Uniti.

In fondo sta proprio qui il punto di tutta la questione, che apre anche importanti interrogativi rispetto al ruolo che l’America potrà e vorrà avere nel post-conflitto: in Siria l’America non avrebbe mai potuto trovarsi dalla parte giusta della storia semplicemente perché la parte giusta poteva essere solo quella dove l’America non si trovava. Questa è l’eredità di anni di errori, di ingerenze e di decisioni geopolitiche catastrofiche, ma è anche soprattutto il frutto di una narrativa comoda per tutti. All’Occidente per continuare a sentirsi parte attiva e quasi onnipotente, per quanto colpevole, anche quando ogni riscontro della storia recente dimostra il contrario, e per le società e i governi del Medio Oriente per continuare a oltranza a deresponsabilizzare sé stessi per le proprie condizioni.
Una questione che tornerà quando tutto questo sarà più o meno finito e si aprirà il dilemma di chi e come dovrà occuparsi di ricostruire il paese. Anche in questo caso le opinioni in America sono divise tra chi – non senza una qualche ragione – punta sull’isolamento assoluto – “amano iraniani e russi e odiano noi? Benissimo, che la ricostruzione la paghino iraniani e russi” – oppure chi pensa che l’Occidente, e l’America in particolare, debbano (e soprattutto possano) avere un ruolo positivo almeno nella ricostruzione. Landis propone un ruolo condizionato, del tipo aiuti sostanziosi in campi mirati come l’educazione in cambio, per esempio, dell’accesso di osservatori Onu dentro le carceri del regime siriano, dove si sono consumati tra i crimini più atroci e indiscriminati dalla Seconda Guerra Mondiale. È una opinione interessante, che se gestita bene potrebbe contribuire lentamente a destigmatizzare il nome dell’America nella regione. Ma è molto facile gestirla male, soprattutto, temo, per la nuova amministrazione.
Ma questa è appunto una decisione per il dopo, per una nuova amministrazione risultata imprevedibile fin dai giorni precedenti all’insediamento e dalla quale, temo, il peggio deve ancora venire. Questa analisi, per la cui lunghezza mi scuso, è servita soprattutto per analizzare le cause e le circostanze di un giudizio molto condiviso sul ruolo avuto dall’America di Barack Obama in Siria. Un’America che prima di essere di Obama era quella post-Afghanistan e post-Iraq. In una parola: post-Bush. Una America che in Siria ha certamente fallito ma che, forse, semplicemente non poteva che fallire.

(Terza e ultima parte di un’analisi più ampia. Qui la prima parte. Qui la seconda parte)

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