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Chi bussa alla porta di Theresa May per gli accordi di libero scambio

mercati, Theresa May, Brexit, Gran Bretagna

Sembra esserci la fila, almeno a sentire il primo ministro britannico, Theresa May. Cina, India e i Paesi del Golfo hanno espresso il loro interesse per siglare accordi di libero scambio con l’Inghilterra un minuto dopo che questa abbandonerà l’Unione Europea. È stato uno degli argomenti maggiormente discussi durante il World Economic Forum di Davos con la premier inglese che ha ricordato al Wall Street Journal come “il Regno Unito ha già lanciato colloqui commerciali con Australia e Nuova Zelanda. Si tratta di abbracciare un vero libero commercio”.

La strategia della May? Riportare la Gran Bretagna al centro dei negoziati e dimostrare che si può fare a meno dell’Europa perché Londra ha un potere attrattivo superiore e anche perché una cosa è trattare con 27 Paesi altra è un dialogo a due con Londra destinata a diventare una sorta di free trade zone nel vecchio continente. Nessun isolazionismo, nessuna autarchia dunque nei piani del governo inglese, al contrario si vuole ritornare ad essere protagonisti del commercio internazionale. Già lo scorso ottobre nel suo primo discorso da leader del partito conservatore, May esortò gli imprenditori al cambiamento proponendo un patto per difendere il capitalismo, il mercato e il libero scambio dagli attacchi del populismo. Un piano fatto di investimenti pubblici nella ricerca e nelle infrastrutture con le aziende incoraggiate a stringere accordi settoriali per massimizzare le opportunità, su modello dei comparti automobilistico e aerospaziale.

Per questo Downing Street durante questi mesi ha creato una squadra ad hoc, come anticipato dal Financial Times, con esperti nei vari settori da John Bell dell’Università di Oxford per le scienze della vita a Richard Perry-Jones, ex manager di Ford, per i veicoli a emissioni ultra basse, da Juergen Maier, amministratore delegato di Siemens Uk per la digitalizzazione all’ex ministro Bian Hutton per l’energia nucleare fino a sir Peter Bazalgette, presidente di Itv (network indipendente televisivo) per le industrie creative. Una squadra destinata a mettere a punto un piano strategico per individuare i settori dove il governo vuole sostenere le imprese: infrastrutture, appalti, accesso alla finanza, gestione, energia. E i paesi con i quali stringere degli accordi commerciali per favorire un flusso commerciale il più ampio possibile, privo dei dazi e delle barriere doganali che non servono ad una piazza finanziaria e ad un’industria di servizi come Londra. A coordinare i lavori è il segretario alle Imprese Greg Clark che vuole riportare Londra e le sue aziende ad essere protagoniste del commercio globale.

Per questo alla porta di Dowing Street stanno bussando soprattutto partner commerciali che hanno i capitali giusti per investire: la Cina del presidente Xi grande protagonista al Forum di Davos, l’India dove qualche giorno fa è volato il segretario agli Esteri Boris Johnson per incontrare il primo ministro, Narendra Modi. Per non parlare dell’America di Donald Trump: venerdì è previsto l’incontro con la May e il primo punto all’ordine del giorno è un preliminare che riguarda proprio il futuro accordo commerciale con Londra che si potrà realizzare appena l’uscita dall’Unione Europa diventerà effettiva.

È stato il segretario britannico al Commercio internazionale, Liam Fox, in un articolo pubblicato sul Telegraph  a sostenere che “almeno 12 Paesi nel mondo sono pronti a rafforzare i legami col Regno Unito” sottolineando che dal “referendum sull’Unione Europea gli investimenti esteri hanno superato i sedici miliardi di sterline, un chiaro segnale di fiducia”. Lasciando l’unione doganale, come riportato recentemente dal quotidiano inglese il Regno Unito sarebbe pronto ad affacciarsi nell’era del superamento delle organizzazioni sovranazionali per lanciarsi in accordi bilaterali con l’economia britannica che guadagnerebbe almeno 24 miliardi di sterline all’anno sul fronte dell’immigrazione, risparmiando quasi 10,4 miliardi di contributi al bilancio comunitario, 1,2 miliardi di oneri regolamentari e concludendo nuovi accordi commerciali per 12,3 miliardi.

Tutto bene dunque? Non esattamente anche perché non si conoscono bene i tempi della Brexit e generalmente per arrivare ad un free trade agreement ci vogliono dai due ai cinque anni (basta guardare cosa è successo con l’Unione Europea e gli accordi con Vietnam, Corea del Sud e Canada) anche se i benefici di aree di libero scambio sono sotto gli occhi di tutti: accesso al mercato delle merci, dei servizi, degli investimenti e degli appalti pubblici per entrambe le parti con l’eliminazione dei dazi; l’abolizione degli ostacoli non tariffari (legati a quantità, standard di qualità e regolamenti) e una profonda armonizzazione normativa. Per questo il tema è caro al premier britannico May che utilizza l’argomento in modo strategico e tattico anche se tanti paesi storicamente alleati alla Gran Bretagna, come l’Australia, di fatto non vedono l’ora di avere canali privilegiati con Londra superando le astruse burocrazie dell’Unione Europea.

E con Bruxelles e i 27 paesi, tra cui l’Italia, come si relazionerà Londra? Molto dipenderà da come uscirà, ma i modelli essenzialmente potrebbero essere due. O fare come ha fatto la Svizzera, ovvero una fitta rete di trattati che comprende circa 120 accordi (disposizioni nei settori della libera circolazione di persone, beni, servizi e capitali) e poggia sull’Accordo di libero scambio concluso nel 1972. Oppure la creazione di un’Unione Doganale, che rappresenta un tipico esempio di accordo preferenziale (su base regionale) tra Paesi. In questo modo vengono abbattute le barriere commerciali che impediscono la libera circolazione delle merci ma, a differenza dell’area di libero scambio, viene istituita una tariffa doganale esterna comune. Un esempio è il rapporto che esiste attualmente tra Turchia e Unione Europea. Ma la strada della Brexit appare davvero ancora tanto lunga.

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