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Riflessioni di un miserrimo cristiano sull’Epifania

Dialogo, democrazia

I cristiani che, come il sottoscritto, cercano di compensare la miseria della loro fede con un minimo esercizio dell’intelletto – nella convinzione che, creandoci a sua immagine e somiglianza, il Padreterno ci voglia capaci di amare ma anche di pensare – spesso frequentano la Messa con una certa svogliatezza. Tra le molte ragioni c’è anche la ripetitività con cui le prediche si risolvono in una generica esortazione a comportarsi bene. Il cristianesimo ha certamente una forte impronta etica, lo sprone a fare bene è quindi legittimo e doveroso. Ma l’omologazione che rende tutte le omelie una sorta di replica dello stesso copione, indipendentemente dal luogo e dal momento in cui sono impartite ai fedeli, è scoraggiante (per fortuna si registra una tendenza a ridurle di lunghezza, che un sacerdote mi ha spiegato essere la risposta alle ripetute esortazioni alla brevità giunte dagli ultimi pontefici).

Il caso odierno è paradigmatico. Per la ricorrenza dell’Epifania, il Vangelo è ovviamente dedicato al racconto dei Re Magi che, guidati dalla stella, giungono a Betlemme per omaggiare Gesù neonato (Matteo, 2, 1-12). La seconda lettura, coerentemente, è tratta dalla Lettera agli Efesini in cui San Paolo (3, 2-6) affronta una questione centrale: il mistero “non è stato manifestato agli uomini delle precedenti generazioni come ora è stato rivelato ai suoi santi apostoli”.

Inquadriamo l’epistola: per gli ebrei, come sappiamo, che Gesù fosse il figlio di Dio era fortemente opinabile, tant’è che la maggioranza restò convinta del contrario, nonostante anni di predicazione e di miracoli. Che però ‘un’ Messia dovesse arrivare per i giudei era assolutamente certo, l’attesa era anzi spasmodica. Quando Paolo si rivolge ai gentili, deve far fronte a dubbi di tutt’altro tipo. E uno di questi è, per l’appunto, che senso abbia che Dio invii il proprio Figlio in forma di uomo, in mezzo agli uomini, per annunciare loro la salvezza. Quanto meno, perché questo significa porre nella storia umana una soluzione di continuità sconvolgente, discriminando le “precedenti generazioni” che non hanno avuto la fortuna di conoscere direttamente il Cristo, né la possibilità di seguirne gli insegnamenti.

Paolo a dire il vero non spiega esaurientemente il perché di questa scelta, almeno nello stralcio della Lettera proposto come lettura, e questo fa sorgere a noi miserrimi cristiani qualche dubbio sul Messale e la speranza che sia il celebrante a sciogliere l’incertezza. Il che, però, non avviene quasi mai. Neanche quando, come capita quasi sempre (è successo anche oggi, con Isaia, 60, 1-6), la lettura veterotestamentaria ci porta per qualche versetto nei meandri di una profezia piuttosto oscura per chi non appartenga al popolo eletto. Idem per i salmi responsoriali e, spesso, con la seconda lettura. Arrivati all’omelia, al massimo, il sacerdote fa un fugace cenno al Vangelo che, bene o male, i fedeli orecchiano più familiarmente.

Probabilmente, però, alla maggioranza della minoranza che ancora frequenta la Messa va bene così. In fondo l’Epifania, anche per i credenti, è soprattutto Befana, calza, dolci per i bambini e per qualche adulto. E conclusione delle feste che attendiamo con l’angoscia del ritorno alla routine, ovviamente dopo esserci lamentati per l’ansia dei giorni da passare in famiglia, tra pranzi, cene e regali. Come dice il produttore di panettoni nell’esilarante ‘Ogni maledetto Natale’, infilato sorprendentemente nei palinsesti televisivi a spezzare il profluvio di cartoni animati, “ma che c’entra il Natale con la religione?”.


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