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Vincoli di sangue e affinità elettive tra Italia e Argentina

La scomparsa negli ultimi giorni di due uomini cultura davvero emeriti e come tali riconosciuti, il linguista Tullio De Mauro a Roma e lo scrittore Ricardo Piglia a Buenos Aires, ricordano al di fuori d’ogni retorica di maniera i profondi e persistenti vincoli non soltanto di sangue tra Italia e Argentina. Certamente sostanziati tra l’Ottocento e il Novecento dalla nostra nota e massiccia emigrazione nel paese sudamericano, forse il più rilevante fattore di popolo in questa punta di Cono Sur.

Sebbene già preceduta da intellettuali e soldati arrivati dalla nostra penisola e subito diventati protagonisti dell’indipendenza nazionale argentina; poi da garibaldini, anarchici e socialisti venuti a combattere contro il caudillismo degenerato in tirannia e guerre civili. Ma saranno infine figli e nipoti di costoro a tesservi una rete di esperienze culturali diffuse che scavalcando la differenza linguistica e l’inerzia politica mantengono vitale il rapporto tra i due paesi.

Era stato Tullio De Mauro a presentare in Italia il linguista e semiologo argentino Luis Jorge Prieto, nato a Cordova e familiarizzato alla nostra lingua dalla madre italiana. Scrisse un’approfondita prefazione al suo testo forse di maggiore valore scientifico, d’impostazione strutturalista: “Pertinenza e Pratica”, ispirato dalle letture dei lavori del filosofo e docente all’università di Roma Emilio Garroni, che interessato tanto all’estetica quanto alla linguistica ne assicurò la pubblicazione.

Prieto vi sostiene l’idea che si può dire di conoscere soltanto ciò che serve a qualcosa (non necessariamente materiale), a una funzione: poiché ogni conoscenza diventa pratica (o non è conoscenza). L’aveva elaborata verso la fine degli anni Sessanta del secolo scorso, nelle turbolenze politico-sociali che condussero l’Argentina a una serie di dittature militari. Dunque in un contesto storico carico di violenza su cui gli argentini ancora si interrogano.

La sua teoria non aveva però specifica attinenza con l’immediatezza politica e sociale di allora. Prieto era tra l’altro da tempo uno dei numerosi intellettuali sudamericani perseguitati dal potere politico di turno, sebbene non militasse in alcun partito. Il regime peronista non lo amava in quanto cattolico; ma i militari che lo rovesciarono e successivamente la dittatura dei generali Ongania, Levingstone e Lanusse lo accusarono di simpatie peroniste, infine quelli di Videla di essere comunista.

Era solo un intellettuale di libero pensiero, di forte sensibilità umana e pertanto attento alle vicende sociali. Aiutato dai colleghi francesi e italiani che lo avevano in grande considerazione, dovette andarsene, prima a Parigi, poi ad Algeri, a Vincennes e per ultimo a Ginevra, dove occupò la cattedra che era stata del sommo Fernand de Saussure, ritenuto il fondatore della semiotica e della linguistica moderne. Pur fedele alla scuola francese, mantenne sempre rapporti intensi con quella italiana.

“Avevamo l’esperienza ma ne abbiamo perduto il senso, ritrovarlo fa rivivere l’esperienza”, è la citazione del premio Nobel Thomas S. Eliot, il poeta della crisi della modernità, che Ricardo Piglia pone come epigrafe al suo romanzo “Respirazione artificiale”, del 1980. In apparenza un dato marginale, ma nella sostanza una dichiarazione di appartenenza all’epoca e alla problematica di fondo che richiama Prieto (e indirettamente De Mauro e Garroni).

Con ciò introducendoci alle circostanze comuni nelle biografie d’entrambi gli intellettuali, spinti all’esilio (Piglia ha insegnato a lungo negli Stati Uniti), per l’impegno nel combattere con l’arma del linguaggio la contraddizione ancor oggi più inquietante, la disumanizzazione della nostra esistenza quotidiana. E dietro di loro, orribilmente minacciosa sebbene mai esplicita ed evidente, l’ombra orribile della repressione clandestina, della violenza occulta e indiscriminata dello stato militarizzato.

Ho letto “Respirazione artificiale” subito dopo la sua pubblicazione, grazie all’amica argentina Elba Izarduy, psicanalista di non comune energia, intuizione e delicatezza, che me lo mandò in regalo a Mosca dove risiedevo allora in quanto corrispondente del quotidiano La Stampa. L’autore, il cui nome completo e italianissimo è Ricardo Emilio Piglia Renzi, battezza Emilio Renzi lo stravagante e nondimeno acuto protagonista dell’avventura letteraria, divenuta un classico del genere esistenzial-poliziesco.

E’ questo suo alter ego, che legge e rilegge il Pavese de “Il mestiere di vivere” e “Lavorare stanca”, “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” di Gadda e “I quaderni dal carcere” di Gramsci; per affidare poi al nipote Marcello Maggi i diari di famiglia, affinché ne faccia un romanzo di romanzi per lo più in chiave d’intrigo, con thrilling e misteri. Los mas y los menos di vari personaggi e situazioni, eroismi incongrui e segreti confessati a fatica, gettano una luce a volte piena e altre di sguincio su una narrazione che allude all’Argentina e al mondo senza illusioni, ma non immemore del lungo dialogo tra Italia e Argentina.

www.ildiavolononmuoremai.it

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