Alla fine l’intervista che Boris Johnson ha dato a Robert Peston nel suo Peston On Sunday il 4 dicembre 2016 è stata rivelatrice. Secondo il Foreign Secretary, uno dei 3 moschettieri del governo che tratteranno con Bruxelles l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue, il Regno Unito avrebbe abbandonato la libera circolazione delle persone e la Corte di giustizia europea, salutando di fatto, anche il mercato unico.
A rendere definitivamente ufficiale la hard Brexit – una sorta di uscita dall’Europa per duri e puri, senza se e senza ma – ci ha pensato il primo ministro in persona, Theresa May, con un discorso che, magari, attenuerà le critiche di chi, come l’Economist, l’ha già ribattezzata Theresa Maybe, ovvero Theresa Forse, indecisa a tutto. Il settimanale britannico “autorevole” per eccellenza si sarà probabilmente rianimato vedendo la scritta “Global Britain” alle spalle del premier alla Lancaster House, ma c’è da scommetterci che i guai per May sono appena iniziati.
Dando agli euroscettici quello che volevano, la leader dei conservatori ha sicuramente accontentato l’ala del partito Tory uscita vincente dal referendum del 23 giugno, ma ha certamente deluso i reluctant remainers, che, come lei peraltro, avevano fatto campagna per restare nell’Ue, e che ora si trovano ai margini del partito di maggioranza a Westminster. I numeri, che in politica sono tutto, affermano che dopo la sconfitta di Zac Goldsmith nell’elezione suppletiva di Richmond, ricco sobborgo alla periferia di Londra, i Tories hanno solo 329 deputati e possono contare su una maggioranza che permetta loro di fare approvare i provvedimenti in Parlamento solo grazie all’appoggio dei partiti unionisti irlandesi e al rifiuto degli MP del Sinn Fein di presentarsi nel luogo per eccellenza del potere politico dell’ex madrepatria inglese.
Se Corbyn non rappresenta certo uno spauracchio, e la rinascita dei LibDems di Tim Farron è ancora ben lontana dal realizzarsi – ma attenzione, l’eurofilia inglese non è mai stata così saliente come dal 23 giugno in poi, e il 48% di chi ha votato remain è in cerca di rappresentanza – May farà bene a concentrarsi sulla questione irlandese, visto che in Irlanda del Nord è appena venuto meno lo storico accordo tra i Democratici unionisti (Dup) del premier Arlene Foster, e il summenzionato Sinn Fein del vicepremier Martin McGuinness.
Ieri, il ministro per l’Irlanda del Nord, James Brokenshire ha annunciato che le elezioni anticipate si terranno il prossimo 2 marzo. Alla base dei dissidi c’è un presunto caso di malversazione che riguarderebbe la stessa Foster. Sia May, sia il premier irlandese, Enda Kenny, hanno mandato messaggi distensivi alle parti in causa, ma dopo il discorso del premier britannico sull’uscita dal mercato unico, il Sinn Fein ha già annunciato che i controlli al confine tra Irlanda del Nord e Irlanda dovranno essere veri e “hard”, proprio come la stessa Brexit. Per la causa repubblicana separatista la Brexit rappresenta l’occasione per riunire le 6 contee dell’Irlanda del Nord, a maggioranza monarchica e protestante, con il resto della Repubblica irlandese. Un problema in più per il primo ministro anche a Westminster.