Detto questo, se per una parte decisamente maggioritaria dell’opinione pubblica internazionale è stato un bene che l’America abbia evitato di assumere un ruolo di primo piano in Siria com’era stato in Libia, resta il fatto che per una parte consistente degli osservatori che in Occidente sostengono la causa dell’opposizione al regime di Bashar al-Assad il fallimento di Barack Obama in Siria è stato determinato proprio dal suo rifiuto di farsi sponsor principale dell’opposizione. E perfino di intervenire nel 2013 in seguito all’attacco chimico di Ghouta, che aveva segnato il superamento della linea rossa sull’uso delle armi chimiche dichiarata pochi mesi prima dallo stesso presidente americano. È in particolare questo l’episodio che coloro che si rifanno a questa linea di pensiero citano per spiegare il fallimento di Barack Obama. Con lui l’America ha tradito il suo ruolo di sostenitrice delle istanze democratiche contro le dittature, a tal punto da tradire perfino una esplicita minaccia fatta in riferimento all’uso di armi di distruzione di massa andando a intaccare così la credibilità stessa degli Stati Uniti in politica estera.
L’interpretazione di questo episodio è quella che meglio esemplifica la distanza fra la narrativa di cui Ford è probabilmente il maggiore esponente e quella di Joshua Landis, che ne ha fornita una alternativa e molto interessante nella sua ultima intervista a Talking Points Memo. Secondo Landis il risultato ottenuto da Obama in quel frangente, per quanto in modo rocambolesco, è stato tra i migliori conseguibili sia per gli interessi della comunità internazionale sia per quelli del popolo siriano. Immaginate, dice Landis, se al posto di accettare un accordo di eliminazione degli armamenti chimici Obama avesse effettivamente proceduto a bombardamenti in grado di portare il regime sull’orlo del crollo. Secondo la visione di Ford ciò avrebbe costretto finalmente il regime a trattare. Ma trattare con chi? Secondo Landis in quel momento non esisteva nessun organismo in grado di rappresentare efficacemente le milizie sul campo. Il risultato sarebbe stato un regime non più in grado di difendersi efficacemente alla mercé di milizie disunite e prive di una guida comune che avrebbero potuto così occupare i principali centri urbani, forse perfino Damasco, e con essi anche i principali depositi di armamenti chimici. A quel punto sarebbe stato impossibile capire dove tali armamenti sarebbero potuti finire e, soprattutto, come e quando sarebbero potuti esseri utilizzati. La mossa di Obama ha invece permesso di evitare il caos totale e allo stesso tempo costringere il regime – e il suo alleato russo – a consegnare gran parte dei propri armamenti non convenzionali (“maggior parte” perché secondo indagini a quanto pare confermate dalla stessa OPCW alcuni agenti chimici “minori” sarebbero rimasti sia nelle dotazioni del regime sia in quelle di Isis impadronitosene prima dell’accordo, e sarebbero stati usati anche recentemente). La pressione fatta dall’amministrazione Obama avrebbe così tolto di mezzo armi estremamente pericolose dal contesto siriano senza colpo ferire.
Da questa analisi della politica di Obama in quel settembre 2013 si comprende anche il resto della visione di Landis, che viene lungamente sviluppata nella sua intervista. Secondo Landis, che sul suo blog Syria Comment ha condotto in questi anni una puntigliosa analisi delle numerosissime milizie presenti sul campo (sia nel campo dell’opposizione sia in quello del regime), non è mai esistita una visione ideologica in grado di unire davvero i gruppi armati avversi al regime; fatta eccezione per la visione islamista. Le varie organizzazioni “cappello” che nel tempo hanno tentato di unire in una visione e in un comando militare comune le tante milizie “moderate” hanno tutte fallito soprattutto per la mancanza di un minimo denominatore comune. È difficile trovare tra queste milizie qualcuna che superi i mille combattenti. Questo perché, secondo Landis, ciò che le unisce sono legami famigliari, di clan e di villaggio. I loro comandanti sono più assimilabili a signorotti della guerra locali che a veri leader militari che agiscono per fini politici più ampi. In questo quadro gli unici che sono riusciti a costituire gruppi armati comprendenti migliaia di combattenti e dotati di un elevato livello organizzativo sono ileader islamisti, e non solo in virtù delle risorse di cui dispongono – secondo Landis, soprattutto all’inizio del conflitto, non così superiori a quelle degli altri – ma soprattutto grazie a una visione molto più efficace in grado di andare oltre le appartenenze locali. Obama, secondo Landis, ha quindi fatto bene a tenere gli Stati Uniti fuori dalla prima linea del conflitto. E quelle rare volte in cui ha ceduto alle pressioni– come in occasione del noto tentativo di far addestrare dalle forze speciali americani unità scelte di ribelli poi immediatamente annientati o assorbiti dagli islamisti una volta rientrati in Siria – è andato incontro solo a fallimenti totali. L’intuizione più interessante del ragionamento di Landis è forse proprio questa: malgrado quello che si è pensato in passato, possedere un enorme vantaggio in termini tecnologici e perfino in termini di strumenti politici non ha comunque permesso all’America e all’Occidente di capire come si creano e si diffondono efficacemente visioni politiche e ideali davvero in grado di unire una popolazione. Per l’America, dice Landis, la democrazia è una religione e come tale gli americani danno per scontato lo possa diventare anche per altri. Ma non è così, la visioni unificanti si fondano sulla storia locale, lontana e recente, e per quanto media e tecnologia abbiano reso il mondo più piccolo nessuno è stato ancora veramente in grado di trapiantare con successo una visione del mondo da un posto a un altro. Il comunismo, in fondo, si chiamava sempre comunismo e sembrava una cosa sola. Ma in Russia, come in Cina o in America Latina ha preso forme assai diverse estremamente influenzate dalla storia locale. Oggi in Medio Oriente spesso si parla di democrazia ma per molti essa significa dittatura della maggioranza, una maggioranza declinata da qualche decennio soprattutto in termini settari e nel divide sunniti-sciiti (non era necessariamente così prima degli anni Ottanta ma sarebbe troppo lungo approfondire qui la questione). Vuol dire governo incontrastato della maggioranza sciita in Iraq e, analogamente, per molti ribelli siriani prende la forma di un governo incontrastato della maggioranza sunnita in Siria. Rinunciando a intervenire per “esportare la democrazia” in fondo Obama ha rinunciato a questa tendenza missionaria della religione civile americana, riconoscendo – non sapremo mai quanto consapevolmente – l’incapacità perfino della Grande America di imporre una narrazione e una visione una volta rimosso il dittatore di turno.
Ma a pensarci bene le implicazioni della visione di Landis vanno anche oltre. In questo quadro, l’effetto più importante del non-interventismo di Obama non è infatti stato quello di tenere fuori gli Stati Uniti da un conflitto che semplicemente non potevano determinare a proprio favore, ma di rendere un po’ più debole quel leitmotiv estremamente radicato in Medio Oriente (e non solo) che vede gli Stati Uniti come i registi più o meno occulti di qualunque cosa (soprattutto negativa) che accade. Si tratta del filtro interpretativo “occidentalista” che abbiamo visto in precedenza, ormai datato e risalente almeno alla seconda metà della Guerra Fredda, e diffuso soprattutto in quei paesi e tra quei movimenti (anche occidentali) che in quel periodo erano allineati con il Blocco Orientale – ma anche, in modo non trascurabile, con il grande movimento post-coloniale dei Non-Allineati. È un tipo di narrazione che dopo la caduta del Muro di Berlino non si è mai veramente attenuata e che è tornata in grande stile dopo l’11 Settembre e le avventure militari dell’Era Bush in Afghanistan e Iraq. Una visione ormai radicatissima anche nello stesso Occidente – in particolare nelle teorie cospirative di molti movimenti populisti e nelle formazioni dell’estrema destra e dell’estrema sinistra – ma è forse in Medio Oriente che trova le sue espressioni più alte. Chiunque abbia bazzicato abbastanza la regione sa infatti come qualunque brutta notizia – da una guerra civile al fallimento del governo a raccogliere i rifiuti – sia immancabilmente collegata nelle narrazioni popolari a una qualche mefistofelica cospirazione americana. Il problema di questo approccio non è ovviamente che esso evidenzi i numerosi errori e i numerosi crimini commessi dall’America nelle sue politiche mediorientali, ma che tali errori e tali crimini siano ormai diventati agli occhi di molti sia dentro sia fuori la regione come l’unico fattore in grado di determinare ogni avvenimento. Deresponsabilizzando, di fatto, qualunque altro attore.
L’esempio più efficace di questo approccio è la narrazione assai diffusa sulla nascita dell’Isis che sarebbe stata originata sostanzialmente dall’invasione americana dell’Iraq e dalle politiche adottate dall’amministrazione occupante dopo la rapida caduta di Saddam Hussein. Se è vero che in questo narrazione c’è certamente molta verità – soprattutto quando parliamo della “de-baathificazione” dello stato iracheno e dall’instaurazione di un sistema politico fondato sulle appartenenze etnico-settarie volte sostanzialmente a favorire la maggioranza sciite duramente repressa sotto il regime di Saddam – è anche vero che essa nega sostanzialmente qualunque responsabilità agli attori politici locali e regionali che dal 2003 in poi hanno fortemente determinato la politica irachena. Per esempio, non si ricorda che durante la prima vera insorgenza dell’allora Al-Qaeda in Iraq (“antenata” dell’attuale Isis) nel 2006-2008 fu una intelligente politica americana che permise di unire le tribù sunnite contro l’organizzazione jihadista e di negoziare un nuovo compromesso di spartizione del potere politico a Baghdad che per qualche anno ridusse la minaccia estremista ai minimi termini. In seguito al ritiro americano fu invece il governo di Al-Maliki – espressione della nuova élite sciita e dei suoi sponsor iraniani – che distrusse negli anni successivi quell’equilibrio così faticosamente raggiunto creando un terreno fertile per un ritorno in grande stile dell’ideologia jihadista fra la minoranza sunnita, preludio alle successive vittorie dell’Isis. L’attribuzione della sola responsabilità al ruolo americano – per quanto grave e innegabile – ha determinato in Iraq, come in Siria e in numerosi altri scenari (la Palestina, per esempio, ma non è questa la sede) la capacità di individuare le seppur pesantissime responsabilità degli attori locali nelle vicende regionali.
È un approccio in ultima analisi estremamente razzista, che nega agli attori locali qualunque capacità fisica e intellettuale di determinare autonomamente il proprio destino e le proprie azioni. Gli arabi non scelgono di radicalizzarsi, non scelgono di ribellarsi, non scelgono di prevaricarsi a vicenda o di cooperare pacificamente. Sono altri a scegliere, e una volta scelto con le loro azioni e i loro intrighi determinano cosa gli arabi subiranno e cosa si faranno a vicenda. Una visione spesso più condivisa a sinistra – alfiere politico dell’antirazzismo – che a destra e in cui lo scambio è chiaro. Da una parte, l’attore locale si deresponsabilizza e rivaluta la propria posizione da quella di chi ha avuto torto e/o commesso gravi errori a quella dell’innocente che protesta contro una ingiustizia commessa da un attore superiore dalla volontà incontrastabile. Dall’altra parte l’europeo di turno che si batte il petto in modo surreale guadagna una autopercezione di potere semi-assoluto, da cui ogni responsabilità e ogni colpa derivano.
(Seconda parte di un’analisi più ampia. Qui la prima parte. La terza parte uscirà il 23 gennaio)