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25 anni dopo Maastricht, perché questa Europa non è quella voluta da mio nonno Guido Carli

Di Romana Liuzzo
Romana Liuzzo

Venticinque anni fa, la firma del Trattato di Maastricht. In questa importante ricorrenza e a pochi mesi dall’ottava edizione del Premio da me ideato in memoria di Guido Carli (l’11 maggio prossimo a Montecitorio), se mi soffermo a pensare, posso dire con assoluta certezza: non era questa L’Europa che voleva mio nonno. Né immaginava questa Italia che dell’Europa è figlia. Con migliaia di imprese che chiudono, giovani senza lavoro e senza futuro, e la stessa idea di democrazia minacciata. La sua vita privata, i suoi insegnamenti, ma anche l’opera storica e politica raccontano un’altra storia e un’altra Europa.

Quando il 7 febbraio del 1992 poco dopo la firma del Trattato di Maastricht, Guido Carli appare in pubblico le cronache lo descrivono visibilmente soddisfatto. Ha vinto la sua battaglia. L’euro deve essere il frutto della politica, delle idee e delle identità nazionali. Niente obblighi o corsi forzosi, niente rientri e rigide manovre correttive ma un’Europa fatta di crescita, occupazione e solidarietà tra gli uomini. Altro che austerità a prescindere.

“L’euro di oggi è un euro falso”, come ha spiegato spesso il professor Giuseppe Guarino, già ministro delle Finanze e amico storico di mio nonno, “perché non disciplinato dalle norme del Trattato, ma da norme che sono contro il Trattato”. Se la speranza si è trasformata in disastro, infatti, come testimonia il bel libro di Angelo Polimeno (“Non chiamatelo Euro“), è perché i regolamenti di Maastricht e il progetto di Guido Carli sono stati progressivamente traditi e ricondotti verso l’egemonia tedesca e una prospettiva tecnicistica e apolitica. Cosa ancora più grave, nella totale assenza di dibattito pubblico e senza passare per le istituzioni democratiche.

Tutto o quasi si consuma in un breve lasso di tempo, dal ’95 al ’97, con la proposta tedesca di dare vita ad un patto di stabilità con sanzioni economiche per i paesi poco virtuosi. Mio nonno è morto da pochi anni e dopo di lui l’Italia assume un atteggiamento di progressiva soggezione rispetto all’Europa. Scrive Polimeno: “La Germania insomma, ora che Guido Carli, con tutta la sua autorevolezza, oltre che competenza, non è più della partita vuole assolutamente smontare la filosofia portante del Trattato di Maastricht”. E ci riesce. L’obbligo di sanzioni economiche viene inserito nel Trattato senza neppure una ratifica dei parlamenti nazionali. Nel silenzio complice della politica, l’Europa ha imboccato una strada senza uscita, quella dell’austerità. Lo spirito di Maastricht non esiste più e con quello s’è ne è andato il testamento di mio nonno e, temo, le speranze degli italiani. Come ricorda Gianni De Michelis, allora ministro degli Esteri, la colpa non è dei governi che hanno portato alle conclusioni di Maastricht ma delle nuove leadership che non hanno espresso uomini adeguati a proseguirne lo spirito e che si sono appiattiti invece alle logiche meccaniche dei bilanci. Euro tecnicismo.

Ricordo invece la passioni umanistiche di mio nonno. Leggeva Tolstoj, Hegel, Beccaria, Marco Aurelio. Aveva una doppia laurea, Economia e Giurisprudenza. Nel tempo libero approfondiva le lingue (parlava correntemente inglese, francese, russo e tedesco) si occupava soprattutto di storia, di diritto, di filosofia. La sua formazione l’ha messo nelle condizioni di capire cosa c’è dietro alla superficie e di agire per progettare il futuro. Essenziali sono per lui quelle che chiamava “strutture profonde”: il carattere, la storia, il diritto delle nazioni che soli possono recepire il senso dell’economia. In una parola la politica nel suo senso vasto e profondo. E senza questa non può esistere mercato. E peggio, il mercato senza politica, come ci ricorda, con parole tristemente profetiche “ha conosciuto conseguenze gravi quando un solo paese ha imposto la propria politica in vista dell’unico obiettivo della stabilità monetaria”.
Esistono due tipi economisti: i primi fanno i conti, i secondi come Guido Carli, fanno la storia. E questo, purtroppo, sembra essere il tempo dei contabili


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