È trascorso un quarto di secolo ed ancora i fantasmi della Prima Repubblica incombono sull’oggi. Non c’è da meravigliarsi poiché, com’era prevedibile, quando la menzogna prevale sulla verità, quando la memoria è scontro e non condivisione, gli animal spirits della storia riemergono con prepotenza. Si è detto che la politica è per gli uomini il terreno di scontro più duro e più spietato. Su questo campo ha ragione chi vince e le ingiustizie fanno parte del grande capitolo dei rischi possibili.
Ma venticinque anni dopo Tangentopoli non si intravede né sul campo né all’orizzonte alcun vincitore. È vinto il Paese, in preda ad una transizione infinita, sulla cui crisi democratica si è innestata una lunga e perdurante crisi economica e sociale. Sono vinti i cittadini, la politica e le istituzioni repubblicane, ridotte ad un cumulo di macerie alla mercé degli avventurieri e dei populisti di turno.
In politica come nella vita non è mai tempo di bilanci. Eppure, mai come in questa circostanza, sarebbe necessario fermarsi e riflettere. Le urla starnazzanti di chi, innanzi al modello elettorale sortito dalla sentenza della Consulta parla di ritorno alla Prima Repubblica senza valutare i frutti avvelenati della seconda, farebbero sorridere se non fosse per la gravità della situazione italiana.
Infatti, se la prima fase repubblicana è stata caratterizzata dalla conventio ad excludendum e dai partiti, oggi non è né ipotizzabile a priori l’esclusione di chicchessia dal governo del Paese, né è rinvenibile una parvenza di forza organizzata in grado di svolgere un’azione formativa e selettiva, oltre che di piena rappresentanza.
La frattura di sistema consumatasi con le elezioni politiche del 2008 ed acuitasi con l’esito referendario dello scorso dicembre, impone uno sforzo di serietà e la necessità di ricercare un nuovo rapporto tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta, nuovi modelli democratici nella vita istituzionale ed una rinnovata visione europea ed internazionale.
Pertanto, se i ritorni al passato non sono possibili e neanche auspicabili, sono invece utili i ritorni al futuro. Venticinque anni orsono andava chiusa politicamente una stagione che, nel bene e nel male, aveva garantito al Paese una salda tenuta democratica, progresso, benessere e sviluppo. Si è preferita l’avventura. Oggi ne va chiusa un’altra, che poi, forse, è ancora la stessa.
Trarre insegnamento dalla storia per il futuro non è quindi un reato di lesa maestà.