Continuano a fare rumore le parole durissime pronunciate dal numero uno di Atlante, Alessandro Penati, nei confronti delle principali banche italiane, da Intesa Sanpaolo a Unicredit passando per Banco-Bpm. Gli istituti di credito, a detta di Penati, sono colpevoli di avere già svalutato (o comunque di essere sul punto di farlo) la loro partecipazione nel fondo di sistema che avrebbe dovuto salvare le banche italiane e ripulirle dalle sofferenze.
Il condizionale è d’obbligo, perché, come noto, Atlante, a dispetto delle enormi aspettative che ne hanno benedetto la nascita, lo scorso aprile, non solo non è riuscito a risolvere il problema delle sofferenze che zavorrano i bilanci delle banche italiane ma si è ritrovato in pancia quasi il 100% delle due disastrate banche venete. Che stanno preparando la fusione e necessitano di altri 3-5 miliardi di ricapitalizzazione dopo i 2,5 già sborsati da Atlante nei due aumenti di capitale del 2016.
Cosa non ha funzionato? Come mai Atlante non è stato all’altezza delle aspettative? È colpa di Penati, noto economista turbo-liberista che ai tempi in cui lavorava come editorialista per Repubblica amava infilzare banche e banchieri? Oppure la colpa è stata di quelle stesse banche che prima lui attaccava, che poi sono diventate azioniste del “suo” Atlante e che infine hanno svalutato la loro partecipazione facendogli un dispetto non da poco? La ragione, come la verità, starà probabilmente nel mezzo.
Si può però provare a fare qualche considerazione sulla vicenda. “La Repubblica” dell’8 gennaio, in un articolo a doppia firma di Andrea Greco e Vittoria Puledda, ripercorre le tappe della nascita del fondo Atlante, mettendone in evidenza luci e ombre. “Nelle riunioni preparatorie della primavera scorsa, al Tesoro – si legge su Repubblica – si parlava di Atlante come del ‘Tarp italiano’; ma già allora l’ad di Mediobanca Alberto Nagel fece notare che gli Usa nel piano di rilancio della finanza avevano profuso 700 miliardi, non 5 (Penati ha detto che con altri 4 miliardi avrebbe risolto tutti i problemi bancari italiani)”. E da qui emerge un primo punto fondamentale: la scarsa dotazione di risorse, con nemmeno 5 miliardi iniziali, di Atlante come avrebbe potuto risolvere il problema delle sofferenze delle banche, che nei bilanci hanno un valore netto di 85 miliardi?
Fin da subito quindi la sfida di Penati pareva azzardata. Non solo: fin da subito, come più volte evidenziato da Formiche.net, erano emerse le tensioni tra Penati e i propri azionisti, le banche appunto. L’economista, dal primo momento in cui gli era stato affidato il difficile compito, aveva desiderato prendere da solo le decisioni principali, senza dovere rendere conto di nulla ai suoi soci. Cosa che invece aveva fatto imbufalire le banche, soprattutto Intesa e Unicredit, che hanno battezzato la nascita del fondo “di sistema” con quasi 900 milioni a testa: una cifra non da poco, soprattutto di questi tempi (pochi mesi dopo, tanto per ricordarlo, Unicredit avrebbe annunciato un aumento di capitale da 13 miliardi, in corso proprio in questi giorni). Motivo per cui gli azionisti non solo volevano dire la loro ma desideravano probabilmente anche beneficiare, grazie ad Atlante, di una corsia preferenziale nello smaltimento delle loro sofferenze. Non è stato così, e Unicredit e Intesa, ma anche il Banco-Bpm, sui crediti deteriorati hanno dovuto fare da soli.
A fare da paciere ci ha provato il grande sponsor di Atlante, il patron di Cariplo, Giuseppe Guzzetti (che pure in passato aveva già preso amaramente coscienza dell’insuccesso del fondo che aveva sponsorizzato). “Le osservazioni di Penati – ha detto Guzzetti l’8 febbraio – sono del tutto pertinenti” sugli azionisti che hanno deciso di svalutare la loro quota nel fondo Atlante a pochi mesi dall’investimento, “tranne un socio, Intesa, che con Messina ha sempre affiancato positivamente l’azione di Atlante. Questo va chiarito”. Guzzetti si troverà tra i due fuochi del suo gestore di fiducia Penati e dell’ad di Intesa, Carlo Messina, ma è evidente che la banca di Ca’ de Sass sia stata la prima a mettere nero su bianco la svalutazione nel fondo.
Inoltre, fin dalla nascita di Atlante, Penati aveva posto delle condizioni. Che, va detto, non si sono realizzate, rendendo tutto più difficile. La prima, sottolinea sempre Repubblica, “era la velocizzazione delle procedure di recupero crediti: la misura del governo c’è stata, ma gli effetti tardano”. La seconda condizione era il ritorno alla redditività operativa delle banche: anche in questo caso si è in alto mare. Terza condizione: l’assenza di choc negativi nei prossimi due anni, pure questa non avveratasi. Infine, Penati aveva fatto sapere che sarebbe servita un po’ di fortuna. Non l’ha avuta.
Probabilmente la voglia di svalutare le quote da parte degli istituti di credito è connessa con queste tensioni registrate fin da subito con Penati. Del resto, tutta questa fretta di svalutare le partecipazioni, dopo appena qualche mese, non si capisce. Come mai gli istituti di credito non hanno la stessa urgenza di rettificare il valore delle sofferenze che appesantiscono i loro bilanci, per tenere conto del loro effettivo valore di mercato attuale? Se lo facessero, gli aumenti di capitale si moltiplicherebbero.