Nell 2000, Alexandre Cammas, giovane redattore di una rivista che oggi non esiste più, propone al suo direttore e mentore di pubblicare un supplemento sui ristoranti parigini. Una sorta di guida di ristoranti “autentici”. Un anno dopo, il supplemento è già diventato un giornale, un sito (e in seguito un app): Le Fooding. Nel frattempo, alcuni giovani chef molto promettenti stanno cominciando a fare scelte strane: rinunciano a postazioni prestigiose nelle cucine degli hotel di lusso e dei grandi ristoranti stellati della capitale, e aprono ristoranti con le sedie tutte diverse e le cucine minuscole. Per ovvie ragioni economiche, scelgono di aprire nel nord-est di Parigi, soprattutto nel 10° e nell’11° arrondissment, quartieri storicamente operai, che la clientela dei ristoranti stellati considera tuttora delle terre desolate. I ristoranti di questi giovani chef propongono menu fissi a 30 euro che cambiano tutti i giorni, secondo le disponibilità del mercato, e rivendicano di fare alta gastronomia coi tovaglioli di carta: nasce la cosiddetta bistronomie. Per capirci: è come se in Italia Carlo Cracco aprisse un’osteria. Sempre intorno al 2000, David Brooks inventa una delle categorie sociali più efficaci degli ultimi anni: i bobo, forma contratta di bourgeois bohémien.
Quindici anni dopo Le Fooding è l’autorità incontestata della gastronomia francese, recensisce bar, ristoranti, pizzerie e kebab. Qualunque posto entri nella guida ha la fila sul marciapiede per le due settimane seguenti, e la clientela dei ristoranti stellati, da qualche anno, sembra essersi rassegnata ad avventurarsi in Uber nelle terre desolate, perché se non lo fai non sei cool. Parigi, che dal punto di vista artistico è ormai una città abbastanza statica e conservatrice, per un giovane cuoco è diventata the place to be.
Alexandre Cammas non è certo il solo responsabile di questi radicali cambiamenti, ma di sicuro li ha capiti prima degli altri. L’ho incontrato in un caffè dell’11° arrondissement, che non sta nella sua guida, una settimana dopo il 13 novembre. Il giorno dopo gli attacchi era in programma una grande serata per festeggiare il quindicesimo anno di Le Fooding. La serata è stata annullata, e sostituita da #tousaubistrot, un’iniziativa capillare per invitare tutti a cenare in un bistrot il primo martedì dopo la strage. Alle 21, tutti erano invitati a uscire in strada per un minuto di silenzio. “Prima di tutto vorrei precisare una cosa”, mi dice appena ci sediamo, “Le Fooding non è una tendenza, non è una moda. È un marchio, composto da una guida, un giornale, un sito e un applicazione mobile”. Poi inizia l’intervista.
Tommaso Melilli: La Francia continua ad avere una grande reputazione per i suoi ristoranti e per la sua tradizione gastronomica. In Italia, per esempio, rimane uno dei nostri cliché preferiti: gli chef coi lunghi cappelli bianchi, delle idee vaghe sulla Nouvelle Cuisine, le stelle Michelin. In che misura definire Le Fooding come l’anti-Michelin ha contribuito al successo del “marchio”?
Alexandre Cammas: In realtà non è un’idea nostra. All’inizio volevamo semplicemente fare una guida che recensisse i ristoranti in cui avevamo voglia di tornare. E anche se trovavamo che molti dei ristoranti premiati dalla Michelin fossero sopravvalutati, la contrapposizione è stata fatta dalla stampa e dai media. In realtà vorrei averci pensato io: sarebbe stato tutto più facile!
TM: La guida Michelin funziona per punti: forchette, toques, stelle. Su Fooding non ci sono gerarchie: ci sono invece tutta una serie di tag e parole chiave che descrivono il tipo di ristorante. Sono categorie che non ho mai visto in nessun’altra guida, e che trovo molto vaghe ed evocative, e nonostante ciò molto efficaci, utili. Per esempio: “troppo buono”, “kid friendly”, “microprezzo”, “feeling”, “mangiare da soli”, “cenare tardi”, “antidepressivo”, “terrazza”, “fammi-del-male!”, “brunch”, “vedere ed essere visti”. Scegliere un posto su Fooding, da un certo punto di vista, è scegliere un certo tipo di serata, direi quasi un pezzo di vita.
AC: Ho un rapporto particolare con quelle categorie: ogni anno mi dico che l’anno successivo le toglierò, e poi finisce sempre che ne aggiungiamo di nuove. Da una parte so perfettamente che funzionano, che i lettori scelgono anche in base a quelle, anche se vorrei che, un giorno, i lettori potessero semplicemente affidarsi a noi, senza categorie e descrizioni, limitandosi al criterio geografico: ci sono questi posti vicino a me, andiamo a vedere!
TM: Le Fooding praticamente non fa critiche negative. È come se diceste: questo posto ci piace, ne parliamo; quest’altro no: facciamo come se non esistesse. Quali sono i criteri con cui scegliete se inserire o no un ristorante? Hai detto una volta che cercate posti che siano “autenticamente sinceri”: significa che tutti i ristoranti che non sono nel Fooding non lo sono?
AC: Bè, se conosci dei buoni posti dove non siamo stati faccelo sapere! Ovviamente non possiamo conoscere tutto, ma riceviamo un sacco di segnalazioni e cerchiamo sempre di andare ad assaggiare.
TM: Eppure ci sono delle caratteristiche che un ristorante deve avere per sperare di entrare nella guida: e anche se queste specifiche non stanno scritte da nessuna parte, mi sembrano abbastanza chiare. Un certo tipo di architettura d’interni, delle formule originali, vini biodinamici, e così via. Posso dire che, se domani aprissi un ristorante a Parigi, starei bene attento a rispettarle!
AC: È possibile. Fammi un esempio di un posto buonissimo che non sta nella guida e che, per esempio, ha un brutto arredamento…
TM: Qualche sera fa ho mangiato per la prima volta da quando sto a Parigi una pizza decente, in una specie di corridoio orribile con il pizzaiolo napoletano all’ingresso che riempiva i clienti di farina.
AC: Eh, ma com’erano i toppings? Le acciughe? Le olive?
TM: Pessimi. Però la margherita era perfetta.
AC: Vedi! Però hai ragione anche tu, l’anno prossimo in effetti potremmo fare un supplemento con una lista di posti che non entreranno mai nella guida, ma dove vale la pena andare per una cosa sola, tipo la pizza margherita. 50 posti che vale la pena provare per un solo motivo, suona bene, no? Aspetta questa me la segno.
TM: Come vedi la situazione della ristorazione in Italia? Non c’è nulla di paragonabile a Le Fooding.
AC: Per quello che ne posso capire io, la cultura gastronomica italiana è ancora troppo divisa fra un’alta cucina molto intellettuale e conosciuta solo dagli addetti ai lavori da una parte, e un’immensa sapienza popolare e domestica dall’altra. Forse qualcosa sta cambiando, ho visto che alcuni grandi chef stanno aprendo dei bistrot. Credo che qualcosa di nuovo potrebbe arrivare in una città come Milano. Ma non basta fare i bistrot, bisogna anche avere il coraggio di cucinare cose semplici. Una volta, a New York, ho assaggiato la cucina di Massimo Bottura e non mi è piaciuta per niente… Troppo cerebrale. Soprattutto perché, voglio dire, accanto a lui c’era Fulvio Pierangelini che faceva gli spaghetti ed è stato fantastico.
TM: Fooding nasce quindici anni fa contro l’establishment: oggi credo che la gente si fidi molto più di voi che della Michelin, quindi avete vinto. Non c’è il rischio di diventare voi stessi l’establishment? Non bisognerebbe andare un po’ contro se stessi?
AC: Assolutamente. È quello che ho cercato di fare con la guida di quest’anno. Fooding è considerata una della bibbie dei bobo, io stesso sono un bobo, e non mi piace. Sognavamo che i bobo potessero costituire una nuova classe dirigente in Francia, che potessero portare freschezza, novità, e invece è diventato un nuovo modo di essere conservatori. Insomma, molto più borghesi che bohémien. A volte mi ritrovo a fare determinate cose, comprare determinati vestiti, andare in determinati posti dove c’è gente uguale a me, e mi chiedo, ma perché? Nell’editoriale della guida di quest’anno diciamo che il tempo dei bobo è finito, e che deve cominciare il tempo dei faubourgeois.
TM: Un momento, questa bisogna spiegarla… Faubourgeois viene da “faubourg”, che è un modo un po’ antiquato per dire periferia. Al tempo stesso l’aggettivo suona come “faux bourgeois”, cioè “falso borghese”. I faubourg sono anche le zone di Parigi più vicine alla periferia: da un certo punto di vista, i recenti attentati hanno colpito un faubourg.
AC: Esatto! Mi rendo conto di quanto sia ambizioso, ma spero veramente che questa parola possa significare qualcosa di più che un tipo di ristorante. Quando ho fondato Le Fooding, qualcuno ha scritto: “Questa gente non ama la gastronomia, quindi la spostano, la portano altrove”. Non so se fosse un complimento, ma per me lo è: nella Francia di oggi c’è un disperato bisogno di diversità, e credo che mettere nella stessa guida il decimo ristorante al mondo e un kebabbaro abbia senso proprio per questo. Perché la diversità è inevitabile, non si tratta solo di accettarla, ma di benedirla, di andarsela a cercare e trovare il modo di essere uniti non malgrado le diversità, ma grazie a esse. Dobbiamo pensare contro noi stessi, e non contro gli altri. Questo vuol dire essere faubourgeois. Non è una questione geografica, si può essere faubourgeois anche in pieno centro. Preferisco non parlare di quello che è successo, ma credo che, in qualche modo, anche questo sia un modo per reagire.
(Articolo tratto dal sito della Rivista Studio)