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Perché è storica la decisione del Marocco su Islam e apostasia

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Nella storia dell’Islam c’è una strada che, nel tempo, si è fatta sempre più stretta pur se custodisce una luce così immensa che potrebbe illuminare diverse società musulmane travolte e schiacciate dal più bieco oscurantismo interpretativo. Un male che tiene milioni di fedeli in ostaggio del passato e impotenti davanti alle sfide del futuro. Quella strada si chiama “ijtihad”, quello sforzo interpretativo che dovrebbe obbligare l’intellighenzia islamica a rileggere e reinterpretare la propria esistenza come musulmani nel mondo, rispetto non solo al glorioso passato ma anche al contesto attuale con nuovi quesiti e sfide contemporanee.

Dal Marocco si è aperta quella porta dalla massima rappresentanza religiosa del paese, il Consiglio superiore degli Ulema, che ha affrontato uno dei grandi temi: l’apostasia, ancora ostaggio di una vecchia lettura che si scontra con l’attualità del presente. Per il consiglio degli Ulema di Rabat non è più tempo di ambiguità sull’interpretazione che si dà per la maggiore: nessuna condanna a morte per coloro che vogliono uscire dall’Islam. È quanto hanno messo nero su bianco in un documento dal titolo “La via degli eruditi”.

Questa presa di posizione è storica perché continua coraggiosamente ad aprire la strada al riformismo in casa Islam – almeno la propria – senza ombre o ambiguità. Si punta su un livello alto della discussione, anche facendo un passo indietro rispetto al passato. Il Consiglio, infatti, rigetta una sua precedente fatwa del 2012 secondo la quale i marocchini colpevoli di apostasia avrebbero un unico destino: la morte. Una regola, almeno nell’interpretazione, comune per tutti i Paesi musulmani, ma prevista in varie forme dalle norme giuridiche in vigore.

In Marocco, per esempio non è contemplata la pena di morte. Il Codice penale parla, invece, di detenzione per l’apostata che può arrivare fino a tre anni. Se il codice penale marocchino inquadra l’apostata con la detenzione, quello che stonava è che l’interpretazione religiosa non l’aveva mai graziato dalla morte.

Certo, in Marocco non vige la Sharia, ma in questi tempi i messaggi e le parole sono armi taglienti, come ha dimostrato il califfo Al Baghdadi. La questione poi dell’apostasia è un punto focale. Basta allontanarsi un po’ dal Maghreb per rendersi conto che in tredici paesi musulmani non ci si accontenta della detenzione, anzi si abbraccia la versione della pena capitale. E sono: l’Arabia Saudita, l’Afghanistan, l’Iran, la Malesia, le Maldive, la Mauritania, la Nigeria, il Pakistan, il Qatar, la Somalia, il Sudan, gli Emirati Arabi Uniti e lo Yemen.

Per tutti loro l’interpretazione degli Ulema è certamente una sfida perché affronta un punto da sempre pressoché intoccabile nel dibattuto interno all’Islam, difficile da controbattere ufficialmente nella sua interpretazione. Eppure nel Corano non si parla direttamente di apostasia. Si rimproverano più volte coloro che rinnegano l’Islam, ma non si prevede per loro alcun castigo terrestre per altrui mano. Certo, Dio promette un grande castigo a chi abbandona la religione, ma un castigo – come nelle altre religioni peraltro – che avverrebbe nell’aldilà e non certamente in Arabia Saudita per mano di un boia, come vuole l’Islam più oscurantista che trova appoggio in certe interpretazioni della Sunna.

Il nodo, infatti, è contenuto in un famoso hadith che sentenzia “chi cambia religione uccidetelo”. Quanto basta per far giungere la condanna di morte per gli apostati sino ai nostri giorni. Non più per gli Ulema del Marocco che argomentano così la loro nuova fatwa: “La comprensione più accurata, la più coerente con la legislazione islamica e la Sunna del Profeta, è che l’uccisione dell’apostata significava l’uccisione del traditore del gruppo, l’equivalente di tradimento nel diritto internazionale, gli apostati in quell’epoca rappresentavano i nemici della Umma proprio perché potevano rivelare segreti agli avversari”. Insomma, un contesto bellico e ragioni più politiche che religiose alla base della ferma condanna per apostasia.

Tempi diversi di quelli attuali in un Paese che del pluralismo religioso ha fatto il proprio fiore all’occhiello, e che più di altri vi presta attenzione e porta avanti un lavoro immenso per difendere la propria posizione e visione di un “Islam moderato”.

Il Consiglio degli Ulema, dunque, cerca di tracciare una linea chiara su un tema di grande attualità, politicamente e socialmente scomodo che in futuro si potrebbe presentare come una trappola micidiale perché nel paese si sono rivelati, senza più filtri, cittadini passati dal sunnismo allo sciismo (si sono aperti solo lo scorso anno i primi centri sciiti) così come al cristianesimo o, addirittura, all’ateismo.

Voci che nell’ultimo periodo sono uscite dalla clandestinità sfidando l’ipocrisia di chi li conosce, ma non li vuole riconoscere.

La cronaca marocchina è piena di casi di arresti per conversione o proselitismo. Ma anche di chi sceglie il mese sacro del Ramadan per ribellarsi sfoggiando il proprio ateismo. Non mancano i gruppi Facebook a testimoniarlo. E infine, il codice penale è ancora lì a ricordare la pena di tre anni per chi si macchia di reato di apostasia. Anche se poi a Marrakesh l’anno scorso si è tenuta una conferenza internazionale per la difesa delle minoranze religiose nei paesi islamici maturata con la Marrakesh Declaration. Specchio di mille contraddizioni.

L’ijtihad degli Ulema marocchini guarda a un mondo globale e non rinchiuso nel vecchi confini ma la strada è ancora lunga e questo è solo un passo. Certamente inedito e incoraggiante proprio perché contestualizza storicamente un fatto, rivalutandolo nel nostro presente. Quella strada stretta dell’ijtihad è difficile da intraprendere ma rimane l’unica via per rialzarsi dal torpore, per contrastare la minaccia dell’oscurantismo che ha dichiarato guerra alle società islamiche in primis.

Se si procedesse in questa linea sui numerosi quesiti ancora irrisolti e intrappolati in una interpretazione anacronistica si risolverebbero tanti problemi delle società islamiche per troppo tempo in attesa di un risveglio.


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