La voce. È la cosa che più colpisce al primo incontro con Massimo Popolizio. Una voce profonda, sembra che dietro la schiena abbia in dotazione un amplificatore. La seconda cosa che colpisce è il suo stile diretto. Come si dice in gergo, non è uno che la manda a dire. Proprio no. Lo abbiamo incontrato per una delle nostre interviste pinITALY e ci ha colpito per il suo approccio schietto, privo di dietrologie. Per gioco, gli abbiamo chiesto di lanciare un appello al ministro Franceschini e lui ha raccolto la sfida: lo ha invitato a frequentare le sale teatrali per rendersi conto di persona di quali siano le condizioni del teatro italiano.
Ma non finisce qui. Popolizio ha tuonato anche contro la romanità. A quanto pare i romani che frequentano i teatri rappresentano il pubblico peggiore, per una speciale combinazione antropologica di incompetenza e maleducazione. Un pubblico presuntuoso, che “crede di sapere tutto”. Un agglomerato di “addetti ai lavori”, di persone che vanno a teatro solo per fare la lista di chi c’era, di chi non c’era e, se c’era, con chi era. Ma fortunatamente non tutto è da buttare nella capitale. Popolizio evoca con piacere le teste bianche che popolano il teatro la domenica pomeriggio. Sono “quelli che non li freghi”. Un pubblico di una certa età, che ha visto tanti spettacoli e non si lascia impressionare dalle mode fintamente creative del momento, dagli espedienti che nascondono una disperata mancanza di idee. Chiede un ritorno alla serietà. A un teatro che non si rassegna a essere banale, con la scusa che “tanto la gente con capisce”. La gente capisce eccome, e con ci sta a essere presa in giro. Perché, insiste, impegno non vuol dire solo seriosità, ma rispetto del pubblico. Una sintesi romanesca rende perfettamente il concetto: “impegno non è rottura de’ palle”. Condivido in pieno.
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