E così il popolo iraniano ha celebrato in piazza l’anniversario della rivoluzione. Scene già viste e riviste: slogan contro l’America e Israele e bandiere bruciate. Il regime sa come aizzare le masse; gli è assai facile, in un sistema totalitario che soffoca la libertà di stampa, uno dei tanti capisaldi della democrazia che l’Iran non ha mai conosciuto.
Quest’anno poi, per mobilitare il popolo c’era una ragione in più: l’avvento dell’amministrazione Trump che ha subito ribaltato l’apertura verso Teheran compiuta ostinatamente da Obama. Apertura ripagata con un’accelerazione da parte iraniana delle azioni destabilizzanti in Medio Oriente, prime tra tutte le operazioni militari in Siria ed Iraq e l’appoggio ai ribelli Houthi nella non meno devastante guerra in corso in Yemen. Trump però è l’antiobama per antonomasia e ha subito ammonito duramente gli ayatollah, infliggendole nuove sanzioni dopo il lancio di un missile balistico qualche giorno fa.
D’altronde, la distensione in salsa obamiana – culminata con il patto sul nucleare del 2015 – non è mai stata digerita da parte dell’establishment statunitense, che (a ragione) non condivide l’ottimismo dell’ex presidente sul futuro delle relazioni tra Iran e resto del mondo. Trump non stralcerà l’accordo sul nucleare, come desidererebbero alcuni membri del suo team. Ma mostrerà i muscoli della superpotenza, lanciando al più impresentabile dei regimi un messaggio niente affatto sibillino: rigate diritto o saranno guai.
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