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I minimi salariali nazionali sono fonte di ingiustizia: è tempo di legare il costo della vita al territorio

Occorre cercare di superare l’ostacolo populista e quello della finta-mala informazione se si vuole cercare di fare qualcosa per sbloccare la situazione nella quale ci troviamo. Essa non è figlia solamente di fattori esogeni, della crisi, della globalizzazione, essa è anche il risultato di problemi mai risolti, di occasioni non colte, di un generale cultura pigra e lassista. In questo contesto, il tema lavoro e nello specifico del lavoro e del salario sono i più soggetti a speculazioni ideologiche e falsi moralismi. Pochi che esprimono concetti oggettivi e documentabili.

Siamo dinanzi ad un mutamento strutturale del paradigma sociale ed economico che impone una riflessione ed una ridefinizione dei termini del rapporto di lavoro e delle relazioni sindacali. Non è più tempo di definizioni, non c’è precarietà per il semplice motivo che non vi è “certezza e stabilità”; non c’è più un tema di “autonomia e subordinazione”, poiché non esiste l’assoluta subordinazione come del pari non esiste l’assoluta autonomia nell’esercizio dell’attività. Occorre prevedere un sistema che garantisca, da una parte un reale sistema di tutela efficace e sostenibile e, dell’altra, garantisca la presenza e la possibilità per il datore di lavoro di sostenere la propria attività d’impresa che è bene comune e come tale va difesa.

Va recuperata la positività delle differenze, diversità che vanno non solo tutelate ma altresì curate e poste nelle condizioni di divenire valori intorno ai quali includere persone ed imprese garantendo la congruità e l’aderenza al territorio.
Vanno recuperate le specificità e opportunità che il territorio offre dal punto di vista imprenditoriale, opportunità che vanno sostenute con incentivi e finanziamenti ad hoc, non più a pioggia e sconsiderati. A latere della politica di sistema, il diritto del lavoro dovrà cambiare per rendere il rapporto di lavoro idoneo a realizzare veramente il dettato Costituzionale, ovvero l’”esistenza libera e dignitosa”.

Ciò può accadere recuperando il principio della “dignità orizzontale” del lavoro, principio oramai da troppo tempo dimenticato e foriero di parte dei problemi occupazionali che oggi ci interessano. Le relazioni sindacali/industriali, in questo contesto assumono particolare rilevanza. Alle parti sociali la nostra Costituzione attribuisce un compito ed una responsabilità immensa, ovvero -per quel che qui ci occupa- la determinazione di un sistema di diritti e doveri all’interno del rapporto di lavoro che devono condurre (i) a garantire ai cittadini per il tramite del “lavoro” una esistenza “libera e dignitosa” (ii) soddisfare il principio di “non discriminazione” (iii) il tutto avendo a mente l’esercizio dell’attività di impresa che, anch’esso tutelato dalla Carta Costituzionale, diventa lo strumento necessario al fine sopra indicato. Tra i principali temi lasciati alle parti sociali – seppure indirettamente – vi è la determinazione dei minimi salariali da applicare al rapporto di lavoro nei vari settori di appartenenza. Come per altri aspetti, tale determinazione è affidata ai CCNL ovvero i contratti collettivi nazionali di lavoro.  Occorre intervenire legislativamente e stabilire che i minimi salariali devono essere stabiliti a livello regionale, provinciale e financo aziendale. Innumerevoli le ragioni a sostegno, ma per tutte valga la mancata considerazione degli elementi territoriali e produttivi che sono alla base di una corretta determinazione del costo della vita e conseguente individuazione del trattamento minimo da garantire.

La conseguenza della centralizzazione dell’operazione è la “disuguaglianza”. Questo fenomeno, già da tempo non più rispondente alle reali esigenze del mercato del lavoro, si è acuito con l’evoluzione tecnologica e la globalizzazione; la prima, ha generato ed ampliato differenze dei livelli di “produttività”, e ciò sia tra “lavoratori” che “imprese”;  la seconda, ha determinato una grande incertezza dal punto di vista industriale non consentendo previsioni economiche di medio periodo con la conseguenza di rendere sempre più indeterminate le esigenze organizzative e produttive. Tutto ciò non ha fatto altro che aumentare la “disuguaglianza” organizzativa, professionale e produttiva all’interno del sistema “Paese”. Mantenere la centralità del contratto nazionale anche nella determinazione dei salari minimi non tiene conto delle differenze connesse al potere d’acquisto da regione a regione con conseguente ingiusto squilibrio del salario “reale”.

L’esperienza tedesca ci conforta sulla correttezza del percorso qui ipotizzato. Da un punto di vista economico e sociale si è potuto apprezzare che la differenziazione territoriale basata su indici collegati al costo della vita nonché alla produttività ha consentito un riequilibrio di eguaglianza e giustizia sociale con effetti positivi sia in termini di recupero di efficienza produttiva che di occupazione. In particolare occorre che vi sia coincidenza fra le differenze retributive e la differenza in termini di produttività, cosa che attualmente in Italia non avviene: il potere di acquisto del salario minimo è più alto dove la produttività è più bassa. Tutto ciò senza parlare del tema organizzativo, del modello di inquadramento professionale e altro che non possono più avere un sistema di centralità avulso dal contesto che dovrebbe regolamentare. In assenza della condivisione da parte delle parti sociali sui termini del problema e circa la soluzione prospettata, il superamento del sistema centralizzato deve avvenire per provvedimento normativo e ciò pur nella consapevolezza del rischio di forzature nel sistema delle relazioni sindacali. Per contro, laddove l’obiettivo dovesse essere condiviso il sistema di relazioni sindacali diviene centrale motore del tentativo di ridare energia, competenza, occupazione, dignità: uguaglianza sostanziale.

La supremazia della contrattazione collettiva nazionale rispetto a quelle di secondo livello nella determinazione della retribuzione non è prevista né dalla Costituzione né dalla legge ordinaria, ma è indirettamente riconosciuta da un sistema via via creatosi attraverso pronunce giurisprudenziali e previsioni previdenziali. Ecco perché in assenza di una condivisione sul cambio di rotta, occorre un provvedimento normativo simile a quello dei contratti di riallineamento. Nelle varie ipotesi di rinnovamento delle relazioni sindacali si esprime sempre il concetto secondo il quale “il contratto collettivo nazionale deve prevedere trattamenti economici e normativi minimi comuni a tutti i lavoratori”; la contrattazione di prossimità deve aver maggiore peso ed autonomia. Quindi vi è coincidenza sul tema, ma i minimi salariali essendo uguali per tutto il territorio non realizzano quel principio di uguaglianza reale che invece deve essere riabilitato. Non solo, il sistema che va implementato deve tendere inoltre al recupero dell’occupazione e alla spinta della produttività e redditività in modo tale da poter riabilitare la capacità reddituale del lavoratore.

Concludendo, il decentramento delle contrattazioni collettive persegue l’obiettivo di riportare “uguaglianza sostanziale” attraverso la verifica del potere reale di acquisto e un obiettivo di politica economica e sociale ancorando la retribuzione a coefficienti di produttività i quali da una parte consentiranno il recupero dell’occupazione e – spingendo la produttività – potranno far incrementare le retribuzioni stesse.

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