C’è una delegazione tutta al femminile e “femminista” che va in visita in Iran a firmar contratti. Ottimo, dico. Poi arrivano le foto delle ministre tutte in fila incappottate e con il velo in testa. Pessimo segnale, mi tocca evidenziare.
E allora mi chiedo: perché perdiamo inchiostro e fiato nella difesa delle “libertà di scelta” di veli e burkini – anche quando sono velatamente un’imposizione psicologica ed ideologica – se poi nel vero campo di battaglia siamo disposte a venderci dietro un pessimo fazzoletto in testa?
Qui non si tratta di un luogo di culto, come una moschea dove è d’obbligo coprirsi il capo. Siamo in un paese e le ospiti non sono né musulmane né iraniane. Sono donne che hanno una loro storia alle spalle di cui certamente dovrebbero essere orgogliose. Come è possibile cancellarla in questo modo, sottomettendosi ad un’interpretazione radicale che vuole “la copertura del capo” delle donne, come obbligo religioso, quando loro stesse non fanno parte di quel credo? Dove sono finite le lotte per le libertà di scelta e il rispetto per l’altro, il diverso?
Se cinque donne, e non cinque turiste, ma ministre, non sono riuscite a imporre la loro volontà su un obbligo misogino e irrispettoso – come quello di obbligare le donne e di qualsiasi fede o nazionalità a mascherarsi ipocritamente per una visita – come possiamo pretendere, noi, di essere credibili nella esposizione delle nostre idee e lotte per l’emancipazione femminile e il rispetto dell’altro?