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Il Pd, Matteo Renzi, il congresso e gli sms sbandierati da Michele Emiliano

Michele Emiliano

Una notizia “esclusiva” del Fatto Quotidiano – e di chi sennò? – ripropone i tempi di Mani pulite, tanto per rifesteggiare le recentissime nozze d’argento dell’intreccio diabolico fra indagini giudiziarie e sviluppi della situazione politica: un intreccio peraltro da cui non hanno guadagnato né la magistratura, la cui popolarità è scesa anch’essa ai minimi termini, né i partiti che se ne avvantaggiarono 25 anni fa, ora alla frutta con i loro eredi.

La notizia è questa, salvo smentite naturalmente, vista la imprevedibilità di chi l’ha data o creata: il magistrato in aspettativa e governatore pugliese Michele Emiliano, prima tentato dalla scissione e poi rimasto all’ultimo momento nel Pd per continuare a contendere la segreteria all’odiato Matteo Renzi, ha rivelato di avere avuto raccomandazioni dal renzianissimo Luca Lotti, attuale ministro dello Sport, a favore di Carlo Russo, indagato per gli appalti miliardari delle forniture alla pubblica amministrazione gestite dalla Consip e amico del padre di Renzi, Tiziano, inquisito  di recente pure lui a Roma per traffico d’influenze.

Tiziano Renzi, in procinto di essere interrogato dalla magistratura, si è già dichiarato estraneo alle “influenze” attribuitegli o sospettate dagli inquirenti, scherzandovi anche sopra con la storia della febbre influenzale che gli sarebbe venuta in questa capricciosa stagione invernale. Ma Emiliano, sempre lui, ha rivelato di essere stato “invaso” – ha scritto Il Fatto – da messaggi del papà di Renzi dopo le raccomandazioni per Russo ricevuto da Lotti. Che peraltro è anch’egli indagato per l’affare Consip, essendo stato accusato addirittura da amici di avere avvertito gli inquisiti di essere sotto controllo giudiziario, cercando così di vanificare l’inchiesta aperta dalla Procura di Napoli.

E’ una storia con i fiocchi, si fa per dire, specie se si dovesse rivelare fondata. Una storia che potrebbe mettere davvero a letto, diciamo così, il papà di Renzi complicando ulteriormente la vita al figlio impegnato nel congresso di partito per esserne rieletto segretario.

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A parti rovesciate, e fatte le debite proporzioni, sembra di tornare ancora più indietro di Mani pulite: ai lontanissimi anni Cinquanta del secolo scorso, quando nella Dc alle prese col problema della successione ad Alcide De Gasperi, il povero Attilio Piccioni, degasperiano di gran lunga più autorevole dell’allora troppo giovane Giulio Andreotti, fu estromesso dalla gara per le vicende giudiziarie del figlio musicista Piero, in arte Morgan, clamorosamente coinvolto nel delitto di Wilma Montesi, trovata morta sulla spiaggia di Torvajanica. L’artista fu poi assolto, ma quando il padre aveva già subìto danni politici irrimediabili.

Allora l’intreccio fra cronaca giudiziaria e cronaca politica fu unico, o quasi. Con Mani pulite, una quarantina d’anni dopo, gli intrecci sarebbero diventati seriali -da serie, naturalmente, non da serietà- e avrebbero travolto non solo un uomo ma più leader insieme e i loro rispettivi partiti, terremotando le stesse istituzioni, visto che dalla cosiddetta prima si passò alla cosiddetta seconda Repubblica. Fu persino cambiata a tamburo battente la Costituzione nel decisivo articolo sulle immunità parlamentari, ridotte in modo tale da garantire la supremazia della giustizia sulla politica.

Tanto per stare al caso sollevato, anzi risollevato dal Fatto Quotidiano con le rilevazioni attribuite a Michele Emiliano a proposito dell’affare Consip, per proseguire le indagini su Luca Lotti, deputato, la magistratura avrebbe dovuto chiedere alla Camera l’autorizzazione a procedere col vecchio articolo 68.

Sempre per restare – scusate l’insistenza – al caso Emiliano-Fatto-Consip e famiglia Renzi, è quanto meno curioso che il governatore pugliese abbia riacquistato la memoria sulle raccomandazioni ricevute da Lotti e sui messaggi del padre dell’ex presidente del Consiglio nel momento in cui la propria candidatura a segretario del Pd è stata mediaticamente e politicamente oscurata da quella del ministro della Giustizia Andrea Orlando. Che si è proposto alla guida del partito sullo stesso terreno di Emiliano: contro la “prepotenza” di Renzi figlio.

Mi chiedo a questo punto cos’altro dovremo tutti aspettarci dalla preparazione del congresso del Pd. E meno male che si tratta di un congresso “cotto e mangiato”, come dice l’ormai scisso Pier Luigi Bersani, o col “rito abbreviato”, come preferisce dire col suo linguaggio giudiziario Emiliano. Figuratevi se Renzi, pur di evitare la scissione, o di limitarne ulteriormente le dimensioni, avesse accettato il percorso di un congresso lento, da trascinare sino all’estate o all’autunno.

Occorre a questo punto mettersi le cinture di sicurezza nel viaggio congressuale del Pd che attende i militanti del partito, gli elettori, i candidati alla segreteria e i giornalisti che ne debbono raccontare le gesta.

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Non so se sia più encomiabile o ingenua, a questo punto, la fiducia del conte Paolo Gentiloni Silveri, che ha annunciato di volere lavorare, sempre alla guida del governo, “a un’ulteriore accelerazione delle riforme” in questo scorcio tormentato di legislatura. Eppure un pezzo della sua vecchia maggioranza, e partito, sta trasmigrando in altri gruppi parlamentari per ritrovarsi con gli scissionisti della sinistra di Nichi Vendola. Che hanno abbandonato l’ex governatore della Puglia non per votare a favore del governo, ma – dicono – per potergli continuare a votare contro con maggiore coerenza.

Si vedrà, naturalmente. Come si vedranno, se ve ne saranno davvero, gli sviluppi del miracolo appena avvenuto nel Palazzo di Giustizia di Milano. Dove una volta tanto è finito sotto indagine non Silvio Berlusconi ma il suo concorrente Vincent Bolloré per la scalata a Mediaset.


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