È arrivato in discussione alla Camera un disegno di legge d’iniziativa parlamentare a tutela degli orfani di femminicidio, nel lessico giuridico, orfani di crimini domestici. Bambini e bambine, cioè, che hanno perso la madre per mano del padre, a volte assistendo al delitto, e diventando orfani due volte.
Nell’ambito di questa norma è stato inserito un emendamento che, nei casi di omicidio, equipara la responsabilità del coniuge e del convivente della vittima a quella di altre figure familiari, come il padre o il figlio, già previste per l’accesso all’aggravante. Dunque nessun innalzamento ad hoc delle pene – come erroneamente sostenuto in alcune discussioni di questi giorni o sottinteso in alcuni titoli di giornali. Nessuna aggravante specifica o distinta, bensì una parificazione, cosa ben diversa. E anche una svolta epocale, se si guarda a quell’esclusione del coniuge dalle responsabilità come il segno di una cultura, quella nostrana del Codice Rocco e del delitto d’onore, cancellato solo nell’81, a cui la modifica proposta direbbe finalmente no.
Si tratta di non chiudere gli occhi dinanzi l’odierno contesto sociale in cui viviamo e la realtà che la cronaca ogni giorno ci racconta, fatta di storie di donne uccise in maggioranza per mano del coniuge o del convivente, figura finora mai considerata; ma, soprattutto, di dare piena esecutività alle direttive della Convenzione di Istanbul, unico strumento normativo giuridicamente vincolante di cui gode l’Europa su questo terreno.
È importante ricordare che la convenzione di Istanbul, non solo, ha dato un grande impulso dal punto di vista normativo (ad oggi la convenzione è l’unico strumento normativo giuridicamente vincolante di cui gode l’Europa su questo terreno) ma, avendovi aderito nel 2013, ne dobbiamo seguire la linea. Occorre condividere l’approccio secondo cui qualsiasi azione di contrasto alla violenza deve muoversi sinergicamente su tutti i piani: prevenzione, protezione, pena.
Quindi mettere in opposizione la questione della cultura e dell’educazione con la dimensione della pena è del tutto controproducente. Cioè, non solo disattende la linea che esprime molto chiaramente la Convenzione, chiedendo a tutti i paesi di essere messi a norma, ma tiene insieme questi aspetti. L’art. 45 è molto esplicito: chiede ad ogni paese di adottare misure che garantiscano sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive, che tengano conto della gravità del reato. Questo disegno di legge prevede forme di tutela come il patrocinio gratuito, la pensione di reversibilità, il sequestro conservativo dei beni a garanzia del risarcimento dei danni, l’assistenza medica e psicologica e anche un fondo ad hoc per i figli delle vittime di femminicidio.
Ricordiamo che il concetto di aggravante nei casi di relazione affettiva nasce con lo stalking nel 2009 e viene ripreso nel 2013 con la legge contro la violenza di genere. Oggi, in questo emendamento sempre più, la giurisprudenza si è mossa nel riconoscimento dell’aggravante verso chi compie un reato quando egli è legato da un vincolo affettivo nei confronti della vittima. Si tratta di un riconoscimento che si è faticato a conquistare ma che ha grande valenza. Il solo che incrocia davvero la realtà. Il diritto prende atto, va a modellarsi sui fenomeni che si presentano dal punto di vista sociale riconoscendo i cambiamenti, a cominciare dalla libertà delle donne. Il diritto è parte della cultura di un Paese. Ogni cultura, nazione, comunità ha scritto le sue norme, la sua tavola delle leggi, esprimendo, nel tempo, i principi nei quali si riconosce il proprio orientamento culturale.Quindi se noi operiamo una separazione tra diritto e cultura non cogliamo il nesso di fondo. Nel corso dell’attuale legislatura si è agito sul terreno del contrasto alla violenza: la ratifica della Convenzione di Istanbul, la legge 119 per la prevenzione, lo stanziamento di fondi (anche se ancora troppo pochi), l’introduzione di CODICE ROSA, che chiede che tutte le forze dello stato si coordino per tutelare la vittima, insieme ad altre norme e, con queste ultime, ritenevamo di voler completare un cammino fatto di piccoli tasselli e uno non sta senza l’altro.