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Vi racconto le fluttuanti percezioni di Beppe Grillo e Giovanni Toti

Giovanni Toti

In attesa che Roberto Speranza e Miguel Gotor finiscano di contare, rispettivamente, i deputati e i senatori dei nuovi gruppi parlamentari per farci capire finalmente la consistenza “onorevole” della scissione consumatasi nel Pd con la convocazione del congresso “cotto e mangiato”, come dice Pier Luigi Bersani, o “col rito abbreviato”, come lamenta Michele Emiliano, che è tuttavia rimasto nel condominio politico di Matteo Renzi per rompergli meglio le scatole, cerco di distrarmi con le imprese di Beppe Grillo a Roma.

Il “garante” – si dice così? – del movimento 5 Stelle ha annunciato urbi et orbi, non dalla basilica di San Pietro, perché Papa Bergoglio non ancora gliene ha dato il permesso, che sul nuovo stadio giallorosso, a Tor di Valle o dove diavolo sarà mai costruito, “decideranno Virginia e il Consiglio comunale”.

Virginia naturalmente è l’avvocatessa Raggi, arrivata in Campidoglio quasi a furor di popolo meno di un anno fa. Che però appare politicamente sempre più un’ombra di sindaco che una sindaca, specie quando la sovrasta fisicamente, e non solo politicamente, Grillo in persona poggiandole la mano protettiva sulla spalla. E fa bene, Beppe, perché la signora appare francamente minacciata più dai suoi collaboratori, uno dei quali è finito in galera a metà dicembre, e dal furente “popolo” grillino che naviga di giorno e di notte in internet, che dagli avversari di destra o di sinistra, palazzinari o muratori che siano, di cui blaterano i suoi tifosi.

Queste naturalmente – avverto Grillo, a scanso di equivoci – sono critiche politiche, non personali. Le persone lasciamole fuori dalle polemiche. Le cose spesso sono più forti degli uomini e delle donne che le gestiscono. In politica, come si sforzava sempre di far capire a chiunque gli venisse a tiro il mai abbastanza rimpianto Sandro Pertini, è importante più ciò che appare che ciò che è. E ciò che appare è che Grillo, pur non essendo sindaco, e neppure consigliere comunale, ha una certa capacità di influenza su ciò che si deve fare o non fare a Roma.

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La situazione della Capitale, d’altronde, evolve così tanto, e così confusamente, che lo stesso Grillo deve cercare disperatamente di adeguarvisi. O di adeguare quella che anche lui, come Silvio Berlusconi prima di cadere col suo ultimo governo, sei anni fa, chiama “percezione”. Che è liricamente mobile per il suo genere femminile.

Dopo avere percepito Roma, uscendo di buon umore la mattina dall’albergo con vista sui fori imperiali, diventato per lui un po’ quello che l’hotel Raphael fu per Bettino Craxi, come una città che “non va così male”, a parte un po’ troppi topi invadenti, cassonetti inutilizzabili, buche e marciapiedi spezzagambe, autobus più da riparare che da usare, gli è venuto il sospetto che sia anche “una bomba atomica”. Un assessore al nucleare, a questo punto, non ci starebbe male nella giunta grillina.

Percezione per percezione, Grillo non si dispiacerà di sapere che cominciano ad essere in tanti a percepire, appunto, la sensazione che l’esperienza della incolpevole Raggi non sia adeguata alla pur cronica emergenza di Roma. Dove, come ha recentemente scritto il buon Antonio Padellaro sull’insospettabile Fatto Quotidiano, c’è da preoccuparsi quando il pubblico parlando della Raggi passa dalla “tanto carina” alla “pora stella”.

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Roma dev’essere in qualche modo galeotta se fa avvertire a chi vi approda per qualsiasi motivo una percezione distorta anche del resto d’Italia. Come temo che sia capitato al governatore della Liguria Giovanni Toti quando, prendendo l’aperitivo – credo – con un collega del Foglio in un confortevole e lussuoso albergo di via del Babuino, ha detto che neppure il centrodestra è così male. Anzi, è nelle condizioni migliori per sfruttare la crisi del Pd, le stecche canore della vecchia sinistra, dove riesce a scindersi anche una formica, e i tormenti grillini. Basterebbe estendere in tutto il paese il modello realizzato da lui in Liguria, da Roberto Maroni in Lombardia e da Luca Zaia in Veneto. Di più, basterebbe unire in un solo partito, facendo magari saltare su un altro predellino il pur vecchio Berlusconi, Forza Italia, la Lega di Matteo Salvini, i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni e magari anche i “sovranisti” di Gianni Alemanno e di Francesco Storace, per non parlare delle solite schegge centriste.

In fondo – ha osservato Toti – il centrodestra da lui immaginato, anzi realizzato, già ha “in mano” 17 milioni d’italiani, quelli appunto delle tre regioni a guida forzista o leghista, e il 40 per cento del pil. E del rimanente 60 per cento, sempre del pil, chi se ne frega, deve essere rimasto in gola al governatore della Liguria.


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