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È un buon affare privatizzare la Cassa depositi e prestiti?

Pier Carlo Padoan, Monte dei Paschi, Mps

Dai lunghi corridoi di via XX Settembre è filtrata l’indiscrezione che il governo vorrebbe vendere il 15% della Cassa depositi e prestiti, per incassare, grosso modo, 5 miliardi di euro che andrebbero a ridurre il debito. Apriti cielo. Sono piovuti tanti no e di varia natura. Vediamone alcuni.

Si dice: su duemila miliardi di debito, che cosa sono 5 miliardi, una goccia nel mare. Vero, anche se il mare a sua volta è un insieme di gocce. Non si può privatizzare un’istituzione destinata a soddisfare esigenze di natura pubblica. Giusto, ma l’argomento potrebbe valere se si cedesse il controllo, invece il Tesoro continuerebbe a possedere una quota superiore al 60%, con un potere assoluto di nominare i vertici. Non solo. Se si vende al dettaglio, per così dire, e se intervengono fondi istituzionali italiani o stranieri, non c’è il rischio che possano essere decise strategie contrarie agli interessi nazionali (posto che il primo interesse nazionale è ridurre il fardello del debito e riprendere a crescere).

Un’obiezione più concreta è la seguente: la Cdp si approvvigiona con il risparmio postale che non può essere messo in pericolo perché oltre tutto serve a finanziare gli enti locali. Benissimo, anche se il pericolo non viene dal 15% che passerebbe ai privati, bensì dai bilanci degli enti locali che sperperano quel risparmio.

Né l’italianità né la strategicità, dunque, sembrano argomenti sostenibili per opporsi alla vendita. C’è, semmai, un’altra questione di fondo: che cos’è la Cdp, una banca, una holding di partecipazioni, un ente pubblico economico? Si esclude che possa essere un ramo dell’amministrazione statale perché altrimenti rientrerebbe nel perimetro del debito pubblico dal quale è uscita con l’apertura del capitale alle Fondazioni bancarie. Non è una pura holding tipo Iri perché opera direttamente. Non è nemmeno una banca in senso stretto perché raccoglie denaro, ma non lo presta, semmai lo investe, e non deve rispettare i requisiti patrimoniali previsti dalla Unione bancaria europea. Forse assomiglia più a una merchant bank anglo-sassone? Nemmeno, perché in questo caso dovrebbe approvvigionarsi sul mercato (oltre alle risorse messe a disposizione dai partner).

Allora, la Cdp è un ircocervo (definizione usata a suo tempo da Giuliano Amato per le fondazioni) o se preferite un’altra espressione della creatività italica. Difficile, in ogni caso, che possa restare ancora a lungo in mezzo al triplice guado. Né vale l’esempio straniero perché la tedesca Kfw è tutta pubblica, però si finanzia emettendo titoli sul mercato. E la Caisse des Dépots francese è la longa manus di Bercy, cioè del ministero delle finanze.

Se la Cdp è destinata a svolgere un ruolo sempre più ampio (siamo entrati in una stagione di neo-statalismo e neo-protezionismo), allora deve ridurre la dipendenza dal risparmio postale. Oggi su circa 400 miliardi in bilancio oltre 250 provengono dalle poste, sarebbe opportuno che il rapporto venisse riequilibrato, tenendo conto che più aumenta linterventismo nell’economia più aumenta il rischio. Ma occorre anche che i confini e la natura della sua capacità operativa siano più chiari e meglio delimitati. Ciò vale per lo stesso fondo strategico. A quel punto, non c’è nulla di male se il capitale (del quale avrà sempre più bsigono) viene fornito direttamente da azionisti privati, pur senza cedere il controllo operativo.

In questa epoca di rinnovati conflitti a priori di ogni genere e risma, il pragmatismo, il calcolo costi-benefici, la valutazione razionale degli interessi sono antidoti fondamentali: chi ancora li possiede farebbe bene a metterli a disposizione di coloro i quali hanno ancora voglia di guarire dalla malattia senile della democrazia.


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