Un Matteo Salvini alquanto inedito da Lucia Annunziata, a Rai 3, sta facendo sognare dentro Forza Italia i vari Renato Brunetta, Giovanni Toti e Daniela Santanchè, convinti non solo che della Lega non si possa fare a meno per rifondare il centrodestra, ma che si possano e si debbano tentare assemblaggi dei due e più partiti e/o gruppi parlamentari e consiliari, a livello nazionale, regionale e comunale, coinvolgendo anche la sorella dei Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni.
Eppure non più tardi della scorsa settimana al Senato si è avuta la rappresentazione plastica delle distanze fra i tre partiti, quando i forzisti hanno disertato la votazione sulla sfiducia “individuale” al ministro renziano dello Sport Luca Lotti, aiutandolo ad abbassare il quorum della maggioranza che gli serviva per vincere la partita del no, mentre leghisti e meloniani hanno votato con i grillini e l’estrema sinistra.
Più ancora di Lotti, del suo amico Matteo Renzi e dei rapporti col Pd era in ballo quella sera nell’aula di Palazzo Madama una questione identitaria enorme come il garantismo, essendosi pretesa la sfiducia al ministro da parte dei grillini perché indagato nella vicenda Consip per violazione del segreto istruttorio e conseguente favoreggiamento degli altri inquisiti, non perché mandato al processo, e tanto meno condannato in qualche grado di giudizio.
La parola magica che, archiviata in fretta la vicenda Lotti, ha fatto sognare i forzaleghisti è “federazione”, usata da Salvini per prospettarne l’esperimento nelle prossime elezioni politiche, ma forse anche prima perché, se si facesse in tempo, potrebbe essere tentata già in qualcuno dei numerosi e grandi comuni in cui si voterà a giugno per le amministrative. Magari, a cominciare da Genova, dove la sinistra ancora soffre per l’autorete compiuta nelle elezioni regionali del 2015, facendo vincere il forzaleghista Toti, e i grillini si sono appena spaccati sulla candidatura a sindaco di una professoressa votata con i computer ma spazzata via con un no gridato dal “garante” del movimento. Che ha liquidato la faccenda salendo in auto, furente per la bocciatura elettronica di un tenore fidato che in quattro e quattr’otto egli ha fatto rivotare, sempre al computer. Ma la professoressa, Marika Cassimatis, non ha nessuna intenzione di farsele cantare e suonare così.
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Oltre alla parola magica della “federazione”, Salvini ha anche regalato ai forzaleghisti qualche presa di distanza, finalmente, dai lepenisti antieuropei.
Il segretario del Carroccio si è probabilmente fatto più prudente sul fronte antieuropeista dopo la sconfitta del suo omologo nelle elezioni politiche olandesi, che potrebbe anche danneggiare nelle elezioni francesi la già difficile corsa di Marine Le Pen all’Eliseo.
Un altro scenario che può avere consigliato a Salvini più prudenza è quello rafforzatosi con la vicenda parlamentare di Augusto Minzolini. La cui mancata decadenza da senatore, reclamata invece in applicazione della legge Severino costata tre anni e mezzo fa il seggio di Palazzo Madama a Berlusconi per una condanna definitiva a più di due anni, ha fatto salire le quotazioni del ricorso presentato alla Corte di Strasburgo dal presidente di Forza Italia. Che pertanto spera ora di rimuovere gli ostacoli contro una sua candidatura alle prossime elezioni politiche.
Non si può infine escludere qualche preoccupazione di Salvini per la situazione all’interno della Lega, dove Umberto Bossi sarà pure invecchiato ma rimane il fondatore del movimento e non nasconde di certo il suo dissenso, anche colorito, verso le scelte e le ambizioni da premier di Salvini. Che -altro fatto non casuale- si è finora sottratto anche alla convocazione del congresso reclamata dal “senatur”, statuto alla mano.
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Come se avesse avvertito nell’aria qualcosa in arrivo dal fronte leghista, a sinistra Walter Veltroni aveva colto l’occasione del suo appuntamento domenicale con i lettori dell’Unità per avvertire i compagni di partito, o di galassia, volendo includere anche gli scissionisti del Pd e compagni già fuori, che più ancora dei pur temibili grillini andrebbe temuto elettoralmente un ritorno della destra e, più in particolare, di Berlusconi.
Anche Pier Luigi Bersani, prima di fuggire da Renzi con Massimo D’Alema, aveva avvertito e denunciato un incombente ritorno della destra, da lui rappresentata con l’immagine della “mucca nei corridoi del partito”, più ispirando però la fantasia di Maurizio Crozza che incutendo paura ai renziani. Che allora erano ancora fiduciosi di vincere o di non perdere troppo male il referendum del 4 dicembre sulla riforma costituzionale.
D’altronde, Bersani non ha mai visto e non vede tuttora un pericolo nei grillini considerandoli un po’ una costola della sinistra, come una volta D’Alema disse dei leghisti pensando di immunizzarli così dalla tentazione di riaccordarsi con Berlusconi dopo averne fatto cadere il primo governo, alla fine dello stesso anno -1994- in cui l’avevano fatto nascere infilandoci dentro, fra gli altri, anche un loro ministro dell’Interno.
Ai grillini l’onorevole Bersani nel 2013, ottenuto dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’incarico – o pre-incarico, come si disse poi al Quirinale – di presidente del Consiglio, tentò addirittura di strappare un aiutino alla formazione di un governo “di combattimento”, per quanto di minoranza, non avendo alcuna intenzione Grillo di negoziare la partecipazione ad una maggioranza.
L’aiutino avrebbe dovuto consistere nella predisposizione ad esaminare senza pregiudizi i provvedimenti e le iniziative dell’esecutivo, di volta in volta. E ciò ammesso e non concesso -come non fu concesso- che il capo dello Stato accettasse uno scenario del genere, consentendo quindi a Bersani di fare il governo e presentarsi alle Camere per sfidare le opposizioni a votargli contro, piuttosto che cercare prima un’intesa con Berlusconi, disposto a negoziarla. Come l’allora Cavaliere fece poi con Enrico Letta.