Ognuno di noi, più o meno volontariamente e frequentemente, entra in contatto con i call center e quindi vale la pena sapere come potrebbero evolvere alcune condizioni del servizio.
Erano gli ultimi giorni del 2016 quando un’emergenza chiamata Almaviva creava il contesto favorevole per un’azione di politica industriale nel settore dei call center in due atti: il primo, per mezzo della Legge di bilancio per il 2017; il secondo, con un protocollo d’intesa proposto dal ministro Carlo Calenda con le aziende maggiormente utilizzatrici di call center (per esempio banche, assicurazioni, gestori di telefonia e distributori di elettricità e gas) per contenere il fenomeno della delocalizzazione fuori dall’Italia.
Andiamo con ordine. Secondo la nuova norma (art. 1 comma 243, della Legge n. 232 del 2016), ben descritta da una nota informativa del ministero dello Sviluppo Economico (Mise), le aziende italiane che hanno delocalizzato, o hanno intenzione di delocalizzare, fuori dall’Unione europea devono darne comunicazione al Ministero del lavoro e delle politiche sociali, all’Ispettorato nazionale del lavoro, al Mise, e al Garante per la protezione dei dati personali; quando un utente effettua una chiamata a un call center (inbound) e quando un utente riceve una chiamata da un call center (outbound), questo deve essere subito informato sul Paese in cui è fisicamente collocato l’operatore del call center che risponde o chiama; dal 1° aprile 2017, inoltre, l’operatore del call center collocato in un Paese extra-Ue deve inoltre informare preliminarmente l’utente circa la possibilità di richiedere che il servizio (inbound o outbound) sia reso da un operatore collocato nel territorio nazionale o in ambito Ue con immediato trasferimento nel corso della medesima chiamata; in caso di violazione di queste nuove norme sono previste sanzioni elevate (per esempio per l’informazione sulla dislocazione del call center e per l’eventuale trasferimento della chiamata, sono 50mila euro al giorno) e si stabilisce che l’azienda committente che affida il servizio a un call center esterno è responsabile in solido con il soggetto gestore del call center stesso.
Ora, negli scorsi anni, molte società italiane hanno delocalizzato le attività di call center in Paesi Ue (Romania, Polonia, Croazia) e in Paesi extra-Ue (Albania, Turchia e Tunisia).
Proprio l’Albania è stata scelta da oltre 300 aziende italiane del settore “customer services” per un mix favorevole delle seguenti variabili: costo del lavoro (350 euro/mese), fiscalità (15% di corporate tax), padronanza dell’italiano da parte dei lavoratori locali. E infatti i dati ufficiali parlano di circa 25mila giovani albanesi occupati nel settore.
Per buona parte di questi giovani il rischio è che, a partire da aprile, gli utenti italiani scelgano di non parlare con loro ma piuttosto con un operatore italiano o di un altro Paese dell’Ue. Alcune grandi aziende potranno sin da subito trasferire la chiamata dal call center albanese in quanto già dotati di altri call center in Italia o in un altro Paese dell’Ue; le molte aziende di piccola-media dimensione, invece, non potrebbero trasferire la chiamata italiana in quanto operative soltanto in Albania. L’effetto complessivo potrebbe comportare licenziamenti in Albania a favore di nuove assunzioni in Italia o in un altro Paese dell’Ue.
Già, ma non potendo introdurre discriminazioni basate sulla nazionalità all’interno del mercato unico dell’Ue e considerando la scarsa attrattività del nostro Paese, ecco che entra in gioco la recente proposta del ministro Calenda per riportare in Italia il lavoro dei call center attualmente delocalizzato. Una proposta però basata sulla moral suasion pertanto dallo “scarso effetto pratico” come dichiarato da Carlo Sarzana, presidente dell’associazione di categoria Assocontact.
In conclusione, la nuova norma e la nuova proposta del governo non garantiscono la protezione o il rimpatrio del lavoro in Italia ma colpiscono i call center extra-Ue, come quelli attualmente in Albania.
Probabilmente questa nuova azione per i call center sarebbe dovuta rientrare in una politica industriale per il Mezzogiorno ai tempi della tanto acclamata Industria 4.0 (interessante in merito la posizione di Giulio Sapelli).
Ma non sarei voluto essere nei panni di Angelino Alfano che il 14 marzo, incontrando il suo omologo albanese Ditmir Bushati, ha affermato che per l’Italia l’Albania è un attore centrale nei Balcani occidentali dove i rischi di instabilità stanno crescendo. Chissà come sarà stato difficile spiegare per il nostro ministro la coerenza tra questa dichiarazione e la nuova norma che rischia di far perdere il lavoro a migliaia di giovani in un Paese dove la disoccupazione giovanile è al 30% e dove tra tre mesi si andrà a elezioni.