“Dj Fabo, nel caso questa legge fosse stata vigente, avrebbe potuto chiedere l’interruzione del trattamento di idratazione e alimentazione”: così il presidente nazionale di Scienza e Vita e prorettore dell’Università Europea di Roma Alberto Gambino – nel corso di un seminario organizzato dal Centro Studi Livatino all’interno dello stesso ateneo – ha sollevato i suoi dubbi riguardo alla legge sul fine vita, o come nel titolo del testo “norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, arrivata alla Camera il 13 marzo. Chiarendo che “il sostegno di prima necessità non può essere considerato trattamento terapeutico”, e che “se la legge passasse così com’è anche noi, per assurdo, diremmo: meglio l’eutanasia attiva”.
LE CRITICHE E I MIGLIORAMENTI DA FARE ALLA LEGGE SUL FINE VITA
Il giurista ha perciò espresso le sue critiche, condivise dal Centro Studi Livatino, nonostante “qualche tentativo di migliorare la legge sia stato fatto”: “non decisivi, ma che segnalano problemi che con onestà bisogna affrontare”. Visto che “in un tema così divisivo si presentano slogan e parole d’ordine, e se la legge non è chiara si lasciano all’interprete possibilità di identificare soluzioni magari non presenti nelle intenzioni del legislatore”. Dopo l’approdo in parlamento, il presidente della Commissione Affari Sociali della Camera Mario Marazziti aveva parlato di “diritto mite”, perché “non può essere chiusa in una casistica la vita e la frontiera mutevole del fine vita”, e della contraddizione della “morte moderna”, citando un lontano intervento di Claudio Magris sul Corriere a proposito della mancata vaccinazione dei bambini down.
“I MALATI PIÙ ISOLATI SARANNO SPINTI A FARSI DA PARTE”, DICE IL PRESIDENTE DI SCIENZA E VITA
Tema, questo, di cui l’eco è riscontrabile anche nelle parole del prorettore: “di fronte al centinaio di casi che chiedono l’autodeterminazione ce ne sono migliaia, in situazioni difficili, che vogliono continuare a vivere. Se passa però il principio dell’interruzione del trattamento quelle situazioni verranno espulse dal sistema sanitario, perché quale medico metterà a repentaglio la propria professione e i propri cari, visto che l’assicurazione non lo coprirà più?”. La conseguenza, continua perciò Gambino, è che “i malati senza qualcuno accanto saranno spinti a sentirsi un peso sociale e a doversi fare da parte”.
IL NODO DELL’ECCESSIVA ATTENZIONE AL CONSENSO INFORMATO
Durante l’incontro, che si è svolto in un contesto universitario alla presenza di giuristi ed esperti ma anche degli stessi studenti, gli interventi sono tutti molto profondi e dettagliati, volti a dissezionare la legge punto per punto. Il che si scontra con le immagini, viste sui giornali, dell’aula vuota nel primo giorno di discussione della legge, che hanno portato il presidente di turno Roberto Giachetti a doverne prendere le difese, sostenendo che nelle “discussioni generali è normale” e che tuttavia il dibattito è stato “ricco”. Quello che emerge dal seminario è che, nella legge, le novità rilevate sono quelle della maggiore attenzione sul consenso informato, che è e deve essere un “diritto costituzionalmente garantito”, si è detto a più riprese, ma che al contrario anche “un’ipertrofia” dello stesso “è profondamente sbagliata”.
IL PUNTO PIÙ CRITICO: “VIENE CRISTALLIZZATA LA POSSIBILITÀ DI INTERRUZIONE”
“Si deve considerare che il medico non è uno strumento del paziente ma una persona in carne e ossa”, ha aggiunto Gambino, sostenendo che nel testo “la possibilità di interruzione viene cristallizzata”. Il passaggio più problematico il professore lo riscontra all’articolo 1 comma 10, dove si cita “ogni azienda sanitaria, pubblica o privata”. Ma “la sanità in Italia è tutta pubblica”, afferma il giurista: “ve lo immaginate, se arrivassimo ad aprire a forme eutanasiche, che lo si possa fare dentro una struttura sanitaria cattolica? O che addirittura diventi un obbligo? Qui ne va anche del Concordato, in una prerogativa di libertà religiosa e di espressione”.
I DUBBI DI ALFREDO MANTOVANO E DEL CENTRO STUDI LIVATINO
I medesimi dubbi sono stati posti anche dal presidente del Centro Studi Livatino, Alfredo Mantovano. “Citando l’articolo 13 della Costituzione si fa intendere che il medico sia l’antagonista da cui guardarsi, come da un poliziotto con le manette”, dice il magistrato, paventando il rischio “di vivere la schizofrenia della legittima difesa, con il medico che si troverà attaccato qualunque decisione prenda in fatto di terapie”. Perciò, continua Mantovano, “io credo che questa disposizione segni uno spartiacque per la professione del medico”. E conclude: “Quello tra medico e paziente non sarà mai un rapporto di totale pariteticità, perché si demolirebbero le libere professioni. Col carico di responsabilità, competenza e consapevolezza che da queste derivano”.